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F O R U M




 
Qual’è il criterio per dare un giusto senso al lavoro umano?
 15 gen, 2016
Lorenzo1  
 

Da sempre l’uomo è costretto a lavorare per sopravvivere. Pur esistendo tra gli uomini infaticabili lavoratori/lavoratrici, la maggioranza di essi (compresi quelli che non ne hanno voglia) sicuramente non ama lavorare perché il lavoro è sacrificio e fatica. Di fatto chi lavora, ha poi bisogno di riposarsi o distrarsi in altra maniera. Quindi l’uomo che da una parte è costretto a lavorare per poter sopravvivere, dall’altra sente in sé il bisogno di evadere in qualsiasi maniera anche in modo ordinato senza necessariamente cercare lo sballo. Sembra che l’uomo tenda verso un’altra realtà rispetto a quella in cui si trova. È come se qualcuno avesse fatto in modo che l’uomo si debba impegnare a tutti i costi nel lavoro.

Anche nel Qoèlet si legge: “Che vantaggio ha chi si dà da fare con grande fatica?/ Ho considerato l’occupazione che Dio dà agli uomini perché si occupino in essa. / Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo, ma ha messo la nozione dell’eternità nel loro cuore, senza però che gli uomini possano capire l’opera compiuta da Dio dal principio alla fine.”

Dio cosa vuole dagli uomini? Vuole veramente che l’uomo fatichi e si sacrifichi? Qual è il senso e quanta importanza bisogna dare al lavoro nella propria vita?
Lorenzo

 
     
Reply

  Re: Qual’è il criterio per dare un giusto senso al lavoro umano?
  15 gen, 2016
Don Renzo  
 
 
 
Caro Lorenzo,
la tua interessante domanda abbraccia diversi aspetti: il primo è quello del lavoro come elemento dell’esistenza umana; il secondo sta nel chiarire quale senso abbia il lavoro e il suo effettivo valore; in terzo luogo nasce la domanda fondamentale dell’attesa di uno stato di vita in cui vi sia la felicità senza fatica; infine la tua richiesta ha un prospettiva teologica perché richiami la divina Sapienza per far luce sul lavoro umano.
1. Per quanto riguarda il primo aspetto, bisogna risalire ai primordi dell’umanità quando, dopo il peccato originale, Dio rivela all’uomo la conseguenza dolorosa di dover guadagnarsi il pane quotidiano attraverso la fatica e il sudore del lavoro. Ciò significa che questa pesantezza lavorativa dipende da uno stato disordinato che è venuto meno all’ordine sapienziale e benefico di Dio Creatore. Perciò nella realtà del lavoro occorre riconoscere questo elemento di disturbo e di affaticamento che lo rende di fatto poco piacevole ma va a accolto quale componente dell’esistenza per ritrovare un equilibrio della propria persona e uno sviluppo delle qualità inerenti a ciascuno, come un’opportunità di crescita e maturazione. Accanto dunque al dolore che esso provoca, si deve vedere un aspetto di positiva valenza.
2. Circa il secondo aspetto va precisato che il lavoro non comporta necessariamente l’elemento di sofferenza e di pesantezza, perché può essere anche causa di una espressività della personalità umana, in quanto alcuni manifestano interesse e passione per quanto operano. A quel punto il lavoro si fa piacevole sebbene comporti sempre un impegno faticoso. Da qui segue l’importanza di saper scegliere nella vita quella professione che si confaccia maggiormente alle proprie interiori disposizioni e qualità, in modo da saper coniugare la fatica con la soddisfazione. Questo aspetto fa comprendere, come già detto, una duplice prospettiva che delinea il lavoro non solo in senso negativo ma anche con buoni risultati. Per cui vale la pena lavorare per nobilitare l’umanità.
3.Giustamente tu evidenzi che l’inquietudine e la sofferenza collegate al lavoro possono indicare un elemento insito nella natura stessa dell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio, cioè l’anelito e il desiderio di prospettare un’esistenza libera dallo schiavismo e dall’oppressione ma pienamente felice. Si tratta in fondo di un’attesa che fa capire all’uomo di non essere totalmente immerso nella dimensione terrena e materiale ma di possedere uno slancio verso valori spirituali ed eterni. Anche questo aspetto rientra nella natura propria dell’uomo affinché non si lasci prendere talmente dal lavoro da dimenticare il suo desiderio d’infinito e di eterno. Oggi in effetti sussiste il pericolo di mettere al primo posto il lavoro quale fonte non solo di guadagno economico e di sopravvivenza, ma anche di una realizzazione totale dell’essere umano. Ma ciò è contrario alla vera natura che l’uomo possiede e diventa un vero schiavismo che chiude il cuore umano ad ogni atteggiamento e sentimento di bontà e di libertà. Per questa ragione la Genesi dice che al settimo giorno della creazione Dio si è riposato, per inculcare nell’uomo un giusto riposo dalle fatiche quale momento di ristoro, di recupero delle proprie situazioni e di rinvigorire l’energia con cui poi deve riprendere la sua fatica. Perciò i momenti di divertimento e di rilassamento non solo sono utili ma necessari per equilibrare gli impegni con la quiete e la serena felice esistenza.
4. Quanto all’ultimo aspetto vedo che hai colto il valore più significativo del lavoro, in quanto rientra nel progetto salvifico di Dio Padre per l’umanità. Infatti Dio, nella sua infinita bontà e sapienza, ha fatto sì che attraverso il peso del lavoro l’uomo possa riscattare la pena subita con il peccato e inserirsi nell’opera redentrice compiuta da Gesù. A questo punto, mirabilmente, il lavoro diventa un momento di grazia, di purificazione e di elevazione verso il nostro Signore e Salvatore. Si può dire che dal male Dio sa ricavare il bene, trasformando ciò che è negativo in evento positivo. Ma questo è possibile capirlo e viverlo solo nella dimensione spirituale della redenzione di Cristo. Anche Lui il Signore Gesù ha lavorato e penato come tutti noi per dimostrare che nel lavoro l’uomo può ritrovare la piena e totale perfezione e liberazione. Sotto tale prospettiva la Chiesa ha sempre sorretto e confortato i lavoratori cioè tutte le creature umane per comprendere e affrontare il problema del lavoro non solo al livello economico ma anche come strumento di redenzione in collegamento all’opera di Gesù.
Per quanto riguarda la citazione del Qoèlet ti posso dire che la questione della gioia nella vita va considerata e risolta dentro la realtà di un lavoro duro e pesante: essa, incastonata nelle occupazioni quotidiane, diviene la vera “compagna” nelle fatiche. L’autore non propone una soluzione comoda e utopistica, ponendo la felicità nel possesso delle ricchezze e dei beni con lo scopo di sospendere ogni lavoro e darsi al riposo o nella soddisfazione del lavoro svolto e nell’autogratificazione che esso comporta; la felicità sta nell’accogliere ciò che Dio dona all’uomo nel lavoro, nel saper prendere con semplicità e prontezza la propria parte di bene che si ricava tra le faccende giornaliere. Pertanto l’importanza dello stretto legame tra l’operosità umana e la gioia fa apprezzare il lavoro ma non lo assolutizza né lo condanna, ma unicamente lo valorizza in vista di una felicità perenne che avverrà dopo la vita presente.

 

 

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