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Approfondimenti

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Commenti ad alcuni brani del vangelo di Marco, che accompagna ogni domenica l'anno liturgico in corso


Conferenze di Don Renzo Lavatori presso il Seraphicum a Roma  

 

Quotidianità e straordinarietà

Mc 1,21-39

21Si dirigono a Cafarnao. E subito, di sabato,

entrato nella sinagoga, (Gesù) insegnava.

22Ed erano stupiti del suo insegnamento,

perché insegnava loro come uno che ha autorità

e non come gli scribi.

23E subito c’era nella loro sinagoga

un uomo, con uno spirito immondo, che si mise a gridare

24dicendo: “Che c’è tra noi e te, Gesù Nazareno?

Sei venuto a rovinarci!

Io so chi tu sei, il santo di Dio”.

25Gesù lo rimproverò dicendo: “Taci ed esci da lui”.

26Lo spirito immondo, straziandolo

e gridando a gran voce, uscì da lui.

27Tutti furono stupefatti,

tanto da chiedersi l’un l’altro dicendo:

“Che è questo? Una dottrina nuova con autorità.

Comanda perfino agli spiriti immondi e gli obbediscono”.

28E la sua fama si diffuse subito dovunque

in tutti i dintorni della Galilea.

 

29Subito, usciti dalla sinagoga,

si recarono nella casa di Simone e di Andrea,

assieme a Giacomo e Giovanni.

30Ora la suocera di Simone giaceva febbricitante

e subito gli parlano di lei.

31Accostatosi, la sollevò, prendendola per mano.

E la febbre la lasciò ed essa li serviva.

 

32Ora, fattasi sera, quando tramontò il sole,

gli portavano tutti gli ammalati e gli indemoniati.

33C’era tutta la città radunata presso la porta.

34Guarì molti che erano afflitti da varie malattie

e scacciò molti demoni,

ma non permetteva ai demoni di parlare,

perché lo conoscevano.

 

35E di mattina, di notte presto, alzatosi uscì

e andò in un luogo deserto e là pregava.

36e lo inseguì Simone e quelli che erano con lui.

37e lo trovarono e gli dicono: “Tutti ti cercano!”.

38Ed egli dice loro:

“Andiamocene altrove per i villaggi vicini,

perché io proclami anche là;

per questo infatti sono uscito (= venuto)”.

39E andò proclamando nelle loro sinagoghe

per tutta la Galilea e scacciando i demoni.

  

Giornata tipica di  Gesù

       L’evangelista si sofferma a tratteggiare una giornata tipica di Gesù, con lo scopo di rendere familiare la sua figura, affinché lo si possa conoscere e apprezzare in quello che opera quotidianamente. In questo modo è possibile seguire i movimenti e le soste che egli compie lungo la giornata e nello stesso tempo costatare come si inserisca nei luoghi comuni e familiari in cui vivono gli uomini, portando la verità, la salvezza e la liberazione. Si nota un mirabile intrecciarsi tra le azioni di Gesù e quelle degli uomini, in modo che tra le une e le altre si stabilisca un sorprendente rapporto di intesa e di comunione, come anche di attesa, di ricerca e di scoperta da parte degli uni e di attenzione, di sensibilità e di generosità da parte dell’altro.

         È un giorno di sabato, dedicato al sacro riposo, secondo la legge mosaica. Ci si trova nella cittadina di Cafarnao, adagiata sul lato nord-occidentale del lago di Galilea. Dalla riva del lago Gesù, accompagnato dai primi discepoli, si dirige verso il centro del villaggio.

 

I vari momenti

       Ogni giornata è scandita dallo scorrere del tempo, fissato in istanti precisi, che si succedono in modo ineluttabile. Con Gesù, ogni momento diventa gravido di grazia, la quale va colta con prontezza perché ad essa ne succede immediatamente un’altra, mentre il giorno dopo il salvatore si allontana da Cafarnao. Non bisogna quindi far passare invano il tempo della sua presenza nella cittadina. Vediamo come ogni attimo sia segnato dalla presenza di colui che viene ad insegnare autorevolmente e a guarire salutarmente.

Anzitutto si fa riferimento al “tempo sacro”, vissuto nella sinagoga del paese per leggere e ascoltare la parola di Dio. In questo frangente, intenso di spiritualità, si innesta e si aggiunge la parola di Gesù, una parola pronunciata “con autorità” a tal punto che gli astanti rimangono stupiti del suo insegnamento. Nasce spontaneo il confronto con gli scribi, cioè i dottori della legge mosaica, gli esperti in questioni teologiche, giuridiche e morali; costoro costituiscono una classe professionale a servizio della interpretazione della legge; gente competente, in forza di un lungo e accurato studio. I partecipanti notano subito la differenza tra l’insegnamento degli scribi, frutto di preparazione culturale religiosa, e quello di Gesù, le cui parole sorgono dall’autorevolezza della sua persona.

Dopo lo svolgimento della funzione sacra, che apre lo spirito alla verità di Dio e lo nutre sostanzialmente, la comunità esce dalla sinagoga e si sposta nelle proprie case, per vivere un altro significativo momento di convivialità attorno alla mensa festiva, generalmente più ricca e abbondante della feriale. Si passa dal tempo religioso al “tempo della casa”, in cui si vive tra le mura domestiche. Simone, cioè Pietro, non lo lascia passare invano. Coglie l’occasione della visita di Gesù nella sua casa e chiede al maestro l’intervento proficuo per la suocera malata. Questa, una volta ristabilita, si mette a servire. La febbre segna un periodo di sofferta attesa che il male se ne vada, immobilizzando l’inferma nel giaciglio; ora, con la presenza di Gesù che la guarisce, la donna recupera un tempo di attività, di gioiosa disponibilità verso gli ospiti. Stupenda trasposizione; ammirevole passaggio dal malessere al benessere, dall’inoperosità forzata alla sollecitudine amorosa.

La giornata giunge al termine al calare del sole. A questo momento si è liberi dagli obblighi del riposo settimanale. Non si è più vincolati dalle ristrettezze legali; è lecito oltrepassare quei limiti, quella distanza, soggetta alla legge del sabato. La folla, nella solerzia di portare i malati, dà il via ad un tempo nuovo, poiché dopo il tramonto di solito si rinchiude in casa e non esce, per prepararsi al sonno della notte e riposarsi nei propri alloggi. Invece va fuori, alla ricerca di colui che può guarire e liberare, come se la giornata non fosse finita, anzi, come se proprio allora cominciasse nella sua attività più intensa. Anche Gesù si rende disponibile a non ritirarsi in casa, soprattutto a non chiudere la porta del suo cuore; non caccia via gli ammalati; si ferma con essi; trascorre il tempo del riposo in mezzo a loro. Quanto tempo? L’autore non lo annota, sottolinea soltanto che dalle prime ore della sera, trascorsa ad alleviare le sofferenze, Gesù si leva prima dell’alba, il giorno seguente, per uscire di casa.

Al mattino, quando è ancora buio, non indugia nel riposo del sonno, ma si alza e si avvale di quel tempo per pregare in luoghi deserti, nella solitudine. Dopo la laboriosa giornata precedente, carica di impegni, e prima di iniziare un nuovo programma giornaliero, quando dovrà dirigersi verso altri villaggi per continuare la sua missione, non colloca solo la breve sosta notturna, ma inserisce anche il momento della preghiera. Egli trova sempre un tempo di raccoglimento, in quanto il rapporto interiore e orante con Dio costituisce il segreto e l’anima della sua attività, il perno e l’orientamento della giornata.

Gesù scandisce ordinatamente il tempo a sua disposizione, in modo da viverlo con serena armonia. Non ne resta schiavo, ma sa riempire i vari momenti e niente risulta vuoto o insignificante; non si perde dietro alla futilità, né si lascia prendere dalla fretta, precipitandosi nelle cose da fare o nella sovrapposizione degli impegni. Non cede allo stress o all’ansia, né si sottopone alla pigrizia. Affronta le diverse fasi temporali, le attraversa inserendovi la novità della sua dedizione e della sua parola, al punto che esse cambiano di prospettiva e diventano momenti di vita e di salvezza.

 

I luoghi dove vive Gesù

       Al tempo si accompagna lo spazio. Interessante prendere in esame i diversi luoghi percorsi da Cristo, per cogliere anche in essi il valore che egli vi imprime. Nella presente giornata il maestro si trova a Cafarnao, il punto di riferimento e il luogo di partenza e di ritorno per i suoi itinerari. Marco annota che Gesù e i discepoli entrano in città e poi la lasciano per dirigersi nei villaggi vicini, dove è necessario predicare.

Al mattino Gesù entra nella sinagoga, l’ambiente per la riunione comunitaria. Il termine “sinagoga” deriva da syn-agō, “condurre insieme, riunire”, nel senso che Dio raduna il suo popolo per parlare a lui. Nella liturgia sinagogale viene letta la Sacra Scrittura. Là propriamente si dirige Gesù e con il suo arrivo irrompe in quel luogo il regno di Dio, che si manifesta con vigore, in particolare contro le potenze maligne. La novità sta nel fatto che, accanto alla Scrittura letta o spiegata liturgicamente, risuona tra quelle mura la parola autorevole ed efficace di Gesù, che mette a tacere il discorso del demonio: “‘Taci ed esci da lui’. E lo spirito immondo, straziandolo e gridando a gran voce, uscì da lui”. Un segno portentoso di intervento liberatore, che possiede una forza maggiore del pur grande potere satanico. L’evento costituisce innegabilmente l’attuazione concreta e inequivocabile delle parole premonitrici di Giovanni il Battista. Non c’è altro da fare che stupirsi e gioire grandemente. Quell’uomo di Nazaret, che entra nella sinagoga per svolgere il suo dovere religioso settimanale e sta lì come un qualsiasi devoto, attento alla Scrittura, in effetti si eleva al di sopra dell’assemblea, al di sopra delle stesse autorità spirituali che presiedono la liturgia, mostrando la sua superiore potestà.

Dopo il luogo sacro, è messo in evidenza l’ambito familiare: “e subito, usciti dalla sinagoga, si recarono nella casa di Simone e di Andrea”. La famiglia è il luogo degli affetti più cari, delle intimità, della comunione, come anche delle inevitabili tensioni. Lì, tra i sentimenti e le emozioni più viscerali, è chiaro che alcune tonalità dell’anima vibrino con maggiore veemenza. Tra le mura domestiche i dolori e le sofferenze delle persone care si fanno più sentire e vengono vissuti più da vicino. Proprio in quella casa si trova una malata e proprio lì, nella concretezza di un ambiente, dove si mangia insieme e si riposa, dove si presta un servizio reciproco, dove si stabilisce una sincera cordialità tra coloro che si vogliono bene, lì s’introduce il Signore, si sofferma, si interessa della situazione disagevole, interviene e dona la guarigione alla suocera di Pietro. La casa ridiventa luogo di servizio e di gioiosa festività nel pasto comune, di pacifica conversazione e di gaudio fraterno.

Al tramonto del sole, si verifica un altro spostamento: dalla casa si passa “presso la porta”, probabilmente la porta della città. Si giunge in un luogo pubblico, come fosse la piazza della città, una zona di passaggio e di incontro, in un andirivieni di persone e di veicoli. Anche là arriva la salvezza di Gesù e con grande potenza. Il maestro non agisce solo nel privato, nel nascondimento, in posti prestabiliti, legati ad usanze o leggi sociali e religiose. Egli va in mezzo alla gente, s’intrattiene amabilmente e pazientemente con essa, senza risparmiare né tempo né energie. Anche là, presso la porta cittadina, svolge la sua opera di liberazione e di sanazione. Lì guarisce numerosi malati, afflitti da varie infermità, e scaccia molti demoni. Tutta la città si accalca presso di lui, davanti alla porta, nella speranza di trovare una soluzione definitiva ai propri disagi fisici e spirituali. Marco non precisa la lunghezza della permanenza di Gesù in quel luogo pubblico. L’unica cosa che registra è che Gesù si reca in un luogo deserto, prima del sorgere del sole. Si presuppone che nel frattempo, rientrato in casa, si sia concesso qualche ora di legittimo riposo. Ma non è da escludere, per lo meno ci si può domandare se nella sua instancabile prodigalità si sia protratto fin a tarda notte in quel posto, per accogliere i più ritardatari, ma non meno indigenti.

Quando è ancora buio Gesù esce dalla casa e si ritira in un luogo deserto: là, scrive Marco, pregava. Lontano da tutti e da tutto, perfino dai discepoli. Prima che costoro lo cerchino e si dirigano da lui, egli resta solo con Dio. Quel luogo particolare, appartato, dove non c’è nessuno e dove non ha senso comunque fermarsi, dove abitualmente non si svolge la vita quotidiana, proprio quel luogo è prescelto da Gesù e per questo diventa prezioso e utile. In quell’area, non riempita dalla presenza umana e dal frastuono del vociare, Gesù incontra nel silenzio il Padre celeste, ritrova il suo amore, risente la sua premurosa vicinanza. In seguito, alla fine del primo capitolo, la zona desertica non sarà solo il posto della preghiera, ma anche lo spazio in cui Gesù accoglierà la folla, in quanto, non potendo entrare pubblicamente nelle città, “se ne stava in luoghi deserti e venivano a lui da ogni parte”, scrive Marco. In tal modo Gesù rivela la sua interiore duttilità e libertà: per un verso, si ritira nel deserto per trovare la quiete del suo spirito nella preghiera, per altro verso, se lo richiede la necessità di sovvenire ai bisogni del prossimo, egli non indugia ad affrontare la folla anche nei luoghi isolati. Questi possano donare la situazione privilegiata per l’incontro filiale con Dio e possono trasformarsi in luoghi d’intrattenimento salutare con gli uomini.

Si è visto come ogni spazio e ogni luogo, in cui Cristo si ritrova, diventa carico di vitalità, quasi spettatore e testimone di salvezza e di bene; tuttavia Gesù non si lega a nessuna delimitazione spaziale. “Tutti ti cercano”, gli dicono i primi seguaci; “andiamocene altrove”, lui risponde. Egli non si lascia imprigionare dagli interessi di una città, non si fa sostenitore del campanilismo paesano. La sua missione deve raggiungere numerosi villaggi, perché anche là si senta la sua voce, quale araldo e inviato di Dio. Marco scrive, al termine del brano: “E andò proclamando nelle loro sinagoghe per tutta la Galilea”. Nessuna città, nessuna zona deve rimanere esclusa dalla sua presenza e dalla sua azione salvifica. Se è vero che “la sua fama si diffuse subito dovunque in tutti i dintorni della Galilea” (come si legge nel v. 28), resta anche vero che la Galilea, con i suoi villaggi, le sue sinagoghe, le sue località, ha bisogno non solo di udire la risonanza della fama di Gesù, ma necessita di vedere e di ascoltare direttamente colui che viene per portare la lieta notizia.

 

Le azioni compiute

       Si sono analizzati i tempi e gli spazi toccati e attraversati da Cristo, ma quali sono le azioni che egli compie lungo l’arco della giornata?

In primo piano appare il suo insegnamento, in quanto egli si mostra come uno che parla con autorità. Predica senza ripetere ciò che ha appreso nelle scuole o che ha approfondito con la ricerca intellettiva. Al contrario, insegna in modo personale, profondo, toccante, affermando la verità con competenza; dice le cose perché le conosce da se stesso con sicurezza. L’autorità di Gesù si fonda sulla sua persona, nella consapevolezza di essere Figlio di Dio. È ciò che traspare dal suo modo di porgere la parola, che suscita una reazione di sorpresa e di inquietudine tra coloro che lo ascoltano e ne apprezzano il contenuto. Enuncia una “dottrina nuova”, nel senso che non rientra negli insegnamenti degli scribi. In che consiste la “novità”? Il testo non lo esplicita, ma lascia adito non tanto a fantasiose interpretazioni, quanto a ricercarne la sostanza vera poiché a suffragarne il valore viene in soccorso la forza liberatrice di Cristo.

Marco fa subito vedere che, dopo l’insegnamento, Gesù libera gli indemoniati. In quanto “santo di Dio” si pone in lotta contro gli spiriti immondi, cioè non santi. La sua parola comanda, è influente; gli spiriti immondi obbediscono all’ordine da lui dato di allontanarsi dagli uomini.

Inoltre guarisce gli ammalati; può e vuole farlo. Egli risana molti che erano afflitti da varie malattie. Il termine “molti” non va inteso nel senso che Gesù non può guarire tutti, ma che la sua azione si rivolge non solo ad una malata (la suocera di Pietro), ma alla moltitudine dei sofferenti, ad un numero consistente di infermi. Alle parole dunque seguono i fatti. Se le prime appaiono risolutive e nuove, i secondi ne confermano e ne dimostrano la validità. Di fronte a tutto questo i discepoli e gli astanti, come anche il lettore, non possono non interrogarsi attorno a quel misterioso personaggio, soprattutto possono coscienziosamente azzardare una certa consolante raffigurazione. Molto di buono e di vero  egli porta con sé e benevolmente comunica agli altri. Non si eguaglia agli scribi. Ma non basta.

 

L’interrogativo, che è questo?

       Dall’analisi della azioni di Gesù (insegna, libera, guarisce, prega) si possono tracciare alcune linee della sua identità, sebbene ancora alquanto sfumate. Che è mai questo? Una domanda ricca di curiosità, segnata dallo stupore, piena di meraviglia, una domanda che ritroviamo sulla bocca di coloro che assistono alla liberazione dell’indemoniato: “Che è questo? Una dottrina nuova con autorità. Comanda perfino agli spiriti immondi e gli obbediscono”. Una interrogazione che nasce dall’ammirazione e che intende scavare più a fondo su quell’uomo così luminoso e potente.

I demoni sono i soli e i primi, per il momento, a scoprire la sua natura. Infatti il posseduto dallo spirito immondo grida: “Io so chi tu sei, il santo di Dio (v. 24)”. Gesù lo sgrida: “Taci”. Anche al v. 34 si legge che non permetteva ai demoni di parlare, perché comprendevano. Quindi essi lo riconoscono, come Gesù sa chi è lui stesso e possiede una chiara concezione della sua missione. Quello che esprimono i demoni è esatto, è formulato rettamente. Essi indicano di lui particolarmente la relazione con Dio, poiché è il santo di Dio. Tuttavia Gesù non vuole che gli uomini scoprano la sua identità attraverso la testimonianza dei demoni, non adatta e per certi versi impropria per condurre alla vera conoscenza della sua persona. Questa può avvenire solo attraverso un’incondizionata sequela lungo la via che egli percorre, accompagnandolo nel cammino fino in fondo, là dove si compirà la sua opera redentrice.

La proibizione imposta ai demoni di parlare e di rivelare la vera identità di Gesù introduce il lettore ad una tematica cara all’evangelista Marco: il segreto messianico. Il suo Vangelo appositamente viene specificato sotto questa angolazione, poiché ripetute volte Gesù intima ai demoni, ai malati e perfino ai discepoli di non parlare di lui. Egli si mostra estremamente riservato per ciò che concerne le sue prerogative personali. Esige una riservatezza diligente a questo riguardo. Ci si chiede per quale motivo assuma un simile atteggiamento. Possono darsi molteplici risposte.

Una verte sulla difficoltà che una manifestazione immediata e palese della messianicità sarebbe stata fraintesa dalla folla in prospettiva politica e trionfalistica. Gesù impone il silenzio per evitare facili entusiasmi. Ma di fatto i malati diffondono la notizia. Lo scopo quindi sembra fallire.

Si dice inoltre che egli voglia svelare il suo mistero progressivamente, in una specie di pedagogia graduale. Sarà lui a rivelarsi chiaramente al termine della sua missione, davanti al sinedrio; il centurione, dopo che Gesù è morto in croce, dirà: “Costui è il Figlio di Dio”. Ne segue che un’autentica comprensione del suo mistero deve tener conto della croce; pertanto ogni divulgazione antecedente risulta fuorviante, con il rischio di ridurre Gesù alla stregua dei guaritori o maghi.

D’altra parte la sua identità, nel senso più vero e intimo, non può essere divulgata in modo superficiale e da chiunque. È ovvio che ogni segreto va comunicato a persone che si reputano capaci d’intenderlo e va svelato al tempo stabilito.

Infine il mistero cristologico appare talmente profondo e ineffabile che richiede da parte degli uomini l’umiltà di non pretendere di poterlo afferrare nella sua totalità; ad essi si richiede l’impegno di approfondirlo sempre più, di penetrarlo maggiormente. Da qui la necessità di porsi continuamente interrogativi su di lui, per destare in ogni credente e discepolo la sorpresa e la meraviglia.

 

Conclusione: L’unione con i discepoli e i malati; la guerra e l’opposizione a Satana

       Tornando alla giornata vissuta a Cafarnao, notiamo che Gesù dedica pochissimo tempo a sé e si rivela uomo capace di vaste e intense relazioni con gli altri. Come egli si pone nei confronti degli individui che incontra e avvicina? Marco offre l’occasione di aprire uno squarcio su questo aspetto della persona e della missione di Cristo, normalmente poco evidenziato.

Gesù si trova costantemente in compagnia dei primi quattro discepoli. Essi hanno lasciato tutto per seguirlo, e, per riscontro, egli va verso di loro, si introduce nella loro casa, come quando si accosta alla suocera di Pietro. Sono i discepoli che conducono il maestro da lei e gli parlano di lei, cioè intercedono a suo beneficio, svolgendo il ruolo di mediatori. Gesù acconsente a questa mediazione, anzi sembra che lui la provochi per instaurare benevoli rapporti tra coloro che stanno con lui. D’altro canto Marco evidenzia l’umanità di Gesù che con semplici gesti dona la guarigione (si accosta a lei, la prende per mano e la rialza), rendendola disponibile al servizio per gli altri. È lui che annoda e favorisce lo scambio di comunione e di reciproca collaborazione.

Simile situazione si crea quando, alla fine della giornata, egli si intrattiene con numerosi malati, tra cui alcuni portati da altre persone, in una specie di solidarietà nella sofferenza. Attorno a Gesù si stabilisce una sorprendente catena di reciproco aiuto con l’intento di ottenere la salute.

Per quanto invece riguarda il rapporto tra lui e il demonio, si instaura una guerra totale, una inimicizia radicale: “Che c’è tra noi e te, Gesù Nazareno?” Quale possibile comunione? Nessuna. Con Gesù il regno di satana tra gli uomini è rovinato, il suo dominio viene radicalmente scosso, il suo potere distrutto. I demoni devono anche tacere, né tanto meno possono pretendere di suggerire delle qualifiche attorno alla persona di Cristo; sono esclusi da ogni presa di posizione nei suoi confronti. Devono starsene fuori. Su questo punto Gesù non traligna, rivelando la sua decisa volontà contro il male.

Non così si comporta verso l’uomo posseduto dal demonio, il quale, prima sofferente sotto la schiavitù del maligno, bisognoso di liberazione, dopo l’intervento sanatorio rivive di nuovo nella propria libertà. Si vede bene come Gesù usa gesti forti nei confronti del diavolo, mentre si serve della sua potenza per soccorrere l’uomo.

Non va dimenticato che, al di sopra di questi legami umani, Gesù ne coltiva uno specialissimo e personale con il Padre. Non solo lo prega nel silenzio, ma fa anche capire ai discepoli che la sua missione è voluta dal Padre: “che io proclami anche là; per questo infatti sono uscito (= venuto)”, in quanto mandato dal Padre. Propriamente questo rapporto filiale con Dio costituisce il filo e il nodo che  consente l’aggancio salutare ed efficace con tutti quelli che gli si accostano e che lui vuole avvicinare, consolare, ravvivare, salvare.

 

       Finora Marco ha tratteggiato le caratteristiche della giornata di Gesù, all’inizio del suo Vangelo, mentre al termine presenterà l’ultima giornata, quella del tradimento, dell’arresto, della fuga dei discepoli, della condanna a morte, dell’esecuzione e della sepoltura. La stessa persona è così delineata in due tratti opposti, creando inquietudine e stupefazione. Nel primo momento Gesù è ammirato, quando svolge la solerte attività liberatrice, circondato dalle folle che si dirigono verso di lui e lo cercano; nell’ultimo momento, abbandonato da tutti, solo, sofferente, disprezzato. Eppure sia là che qua è riconosciuto dai demoni come il santo di Dio e dal centurione romano come Figlio di Dio. A questo punto si può dire che da tutto l’insieme Marco voglia manifestare il mistero di Gesù, che abbraccia contemporaneamente la potenza di colui che sconfigge il male e la debolezza di chi è umiliato e distrutto sulla croce.

  


Chi è mai costui?

Mc 4,35-41

 35Dice loro in quel giorno, fattasi sera:

“Passiamo di là”.

36E, congedata la folla,

prendono lui, com’era, sulla barca,

ed altre barche erano con lui.

37E ci fu una grande tempesta di vento;

e le onde si scagliavano contro la barca,

al punto che la barca era già piena.

38Lui era a poppa, dormendo sul cuscino.

Lo svegliano e gli dicono:

“Maestro, non t’importa che periamo?”.

39E, svegliatosi, rimproverò al vento e disse al mare:

“Taci, calmati”.

E cessò il vento e ci fu grande bonaccia.

40E disse loro: “Perché siete paurosi?

Non ancora avete fede?”.

41E furono terrorizzati da grande timore

e si dicevano gli uni gli altri:

“Chi è mai costui,

che sia il vento sia il mare gli obbedisce?”.

 

Introduzione: Contesto e parti del racconto

       Essendosi soffermato ampiamente sulle parabole e sulla loro puntuale delucidazione, Marco ora torna alla concretezza della realtà, raccontando una serie di miracoli o azioni portentose, quasi volesse far vedere che le sole parole, pur belle e sostanziose, rimangono troppo per aria e hanno bisogno di essere calate nella vita reale, nelle vicende che si susseguono momento per momento. D’altronde questo stesso è il modo di procedere di Dio nell’inserimento storico tra gli uomini. Parole e fatti formano l’ossatura dell’economia salvifica. Anche Gesù, dopo l’ammaestramento, passa alle opere, anch’esse attuate per mezzo della sua parola potente.

Il primo evento descritto si riferisce a quanto accade sul lago, durante una tremenda tempesta. L’episodio, messo là con naturalezza, rappresenta uno spaccato o una finestra, da cui è possibile osservare ciò che avviene non solo dal punto di vista materiale col susseguirsi fisico dei momenti e delle situazioni, ma, più profondamente, scrutando il modo di comportarsi dei protagonisti, le loro reazioni interiori, il loro dialogare e scambiarsi gesti, interrogazioni, esclamazioni. Si scorge bene una doverosa e insieme gradevole familiarità tra Gesù e i discepoli, tutti raccolti assieme dentro la barca. Pur in mezzo al trambusto della improvvisa bufera c’è il tempo di sperimentare un rapporto significativo col maestro, più vantaggioso per essi di un lungo insegnamento, per conoscerlo in maniera diretta e intima, soprattutto per instaurare con lui un contatto più solido, che non avevano sperimentato in altre occasioni, ma che ora si fa avanti per necessità a causa della difficile situazione in cui s’imbattono. Tuttavia lo stare insieme non impedisce, anzi facilita una scoperta sempre più sorprendente di un Gesù che è là, dormiente in mezzo a loro, eppure possiede la supremazia sulle forze naturali avverse. Sconcerto e letizia, turbamento e soddisfazione si accompagnano in questa avventura. Ma vediamo nei dettagli cosa è capitato alla comitiva che si inoltra nell’attraversata del lago.

 

L’imbarcazione sul lago

       Il racconto evangelico descrive accuratamente ogni particolare.

“Dice loro in quel giorno, fattasi sera: ‘Passiamo di là’” (v. 35). Marco colloca il brano alla fine della giornata dedicata alle parabole. L’indicazione probabilmente ha un valore redazionale, per dare seguito agli avvenimenti, secondo l’esigenze dell’arte narrativa. Fatto sta che, conclusasi la giornata della predicazione, Gesù lascia la folla con la stessa barca su cui era salito a causa della ressa e dalla quale aveva svolto la sua catechesi. È indicato il momento preciso, nel tardo pomeriggio. C’è ancora tempo per i discepoli e il maestro di pervenire alla riva orientale prima del sopraggiungere delle tenebre. È lui che prende l’iniziativa ed ingiunge di passare all’altra sponda, senza che venga indicato il motivo. Possono essere proposte due ipotesi: o intende allargare la sua attività approdando in zone pagane oppure vuole prendersi un po’ di riposo dopo una giornata intensa di attività missionaria.

“E, congedata la folla, prendono lui, com’era, sulla barca, ed altre barche erano con lui” (v. 36). I discepoli eseguono fedelmente e prontamente le disposizioni ricevute, mentre la folla viene lasciata sulla riva; in tal modo possono prendersi cura del loro maestro, accogliendolo così com’è sulla barca. A differenza degli altri due evangelisti, Marco si dilunga nei particolari: anzitutto ci informa della presenza di altre barche che lo accompagnano, senza più menzionarle in seguito. Forse devono adempiere la funzione di testimonianza del prodigioso avvenimento. Quale è il senso del loro coinvolgimento? Possiamo fare delle supposizioni: si tratta di pescatori che si recano al lavoro, in quanto sta per farsi buio; oppure sono persone originarie della zona sulla riva orientale, venute ad ascoltarlo e che ora se ne tornano a casa nella medesima direzione; ovvero può trattarsi di coloro che più vicini al maestro lo seguono dovunque si diriga.

“E ci fu una grande tempesta di vento; e le onde si scagliavano contro la barca, al punto che la barca era già piena” (v. 37). Dopo la partenza tranquilla, ecco che avviene l’imprevisto e l’indesiderato con il sopraggiungere della bufera. Marco la descrive così: “E ci fu una grande tempesta di vento”. A causa dell’impeto del vento, le onde si abbattono sulla barca e vi gettano acqua, con la desolante conseguenza di farla affondare. Si sa che il lago di Tiberiade, per la sua posizione geografica, è esposto ad improvvise raffiche di correnti d’aria, che si rovesciano con estrema violenza creando grossi pericoli per le piccole imbarcazioni. Lo scatenarsi delle forze della natura, con il mare sconvolto dalla burrasca, costituisce qualcosa di incontrollabile. I pescatori, incapaci di porre rimedio, si trovano non solo di fronte al pericolo, ma anche alla percezione dell’ignoto e dell’imprevedibile. Che ne sarà di loro e di tutta l’imbarcazione? È da immaginarsi lo spavento, il disorientamento e soprattutto la constatazione della loro estrema fragilità e impotenza.

“Lui era a poppa, dormendo sul cuscino. Lo svegliano e gli dicono: ‘Maestro, non t’importa che periamo?’” (v. 38). Il racconto inserisce un particolare strano: il maestro dorme. Si percepisce così il contrasto tra la furia del vento, l’agitazione subentrata nell’animo dei discepoli e il tranquillo sonno di Gesù, che Marco sembra fotografarci mentre se ne sta a poppa, nella parte posteriore dell’imbarcazione, forse riservata ai passeggeri di riguardo; ed è adagiato sul cuscino di cuoio a dormire.

È ben comprensibile che sia stanco, dopo la spossante giornata di predicazione al cospetto di una grande folla. Inconsueto appare che non si svegli al fragore della tempesta, con le ondate che sbattono sui fianchi dell’imbarcazione e con l’acqua che schizza da tutte le parti e si riversa nell’interno. Restando quieto a dormire sembra dimostrare una serena tranquillità e una piena fiducia nella protezione di Dio.

 

L’intervento di Gesù

       In quel momento, vista l’emergenza della situazione, intervengono i discepoli che, dopo averlo svegliato, gli dicono: “Maestro, non t’importa che periamo?”. Il suo assopimento lo hanno interpretato come un atteggiamento di indifferenza e di non curanza. Questo leggero rimprovero rivolto a Gesù non compare negli altri evangelisti. Matteo riporta la richiesta di salvezza: “Signore, salvaci, siamo perduti”. In Luca c’è la presentazione della situazione drammatica: “Maestro, maestro, siamo perduti” (si noti il tono confidenziale). Marco rivela il loro animo conturbato, come se il maestro non si curasse di loro, come se a lui non interessasse la vita dei suoi amici e seguaci; in fondo si sentono abbandonati anche da lui, che non interviene con la sua potenza, standosene pacifico a dormire.

Il biasimo, espresso in forma interrogativa: “Non t’importa che periamo?”, sollecita una risposta di Gesù, una sua reazione. Fatto sotto forma di domanda, esso nasconde in ultima analisi un invito per un efficace intervento; solo così risulta ingiustificata la loro presunta accusa. Se lui fa qualcosa di proficuo, come d’altra parte essi desiderano, allora dimostra effettivamente il suo interesse per loro, liberandoli da una morte imminente.

“E, svegliatosi, rimproverò al vento e disse al mare: ‘Taci, calmati!’. E cesso il vento e ci fu grande bonaccia” (v. 39). Da addormentato e inoperoso Gesù diventa energico e protagonista. Si sveglia e agisce prontamente. Marco descrive la scena come se ci si trovasse davanti alla rappresentazione di un duello, di uno scontro tra due antagonisti: da una parte la bufera con la sua veemenza e dall’altra il maestro con la sua autorevolezza. A questo punto le sorti si capovolgono. All’inizio le forze naturali si agitano sempre più, mentre Gesù è adagiato a poppa nella calma e nella pacatezza del sonno. Adesso, al contrario, egli sgrida al vento e al mare, mentre la tempesta si placa fino al sopraggiungere della bonaccia. La lotta duellante non si protrae a lungo, ma si giunge all’epilogo con evidente vittoria di Cristo. Ciò fa intendere che le due parti non erano sul medesimo livello, nel senso che le forze erano impari. Alla fine la meglio tocca a colui che dormiva e non alla furia delle onde.

Guardando più a fondo, l’azione imperiosa contro la tempesta, secondo il racconto di Marco, presenta i lineamenti di un esorcismo. Gesù strilla al vento e al mare: al primo impone di tacere e al secondo di calmarsi. Nelle espulsioni dei demoni ricorrono simili espressioni: “Taci”, aveva urlato Gesù al demonio nella sinagoga di Cafarnao. Anche ora si assiste ad una colluttazione tra il potere risanante di Gesù e le potenze della natura che come demoni si abbattono sugli uomini per annientarli.

Si sa che le violente burrasche sul lago di Tiberiade sono di breve durata, in quanto si scatenano all’improvviso e altrettanto improvvisamente si placano. Tuttavia l’istantaneità della bonaccia non sta a indicare un fatto semplicemente metereologico, ma scaturisce dall’intervento eccezionale e risolutore del Signore. La sua azione da una parte provoca una specie di sacra paura nei pescatori esperti sui moti delle acque e dall’altra ristabilisce in un baleno la quiete, quando da un punto di vista naturale si richiede del tempo per il ritorno del sereno.

 

Il dialogo fraterno

       “E disse loro: ‘Perché siete paurosi? Non ancora avete fede?’” (v. 40). Compiuto il miracolo, rasserenati gli animi, ritrovati l’ordine e la pace, Gesù approfitta per dialogare con i discepoli, offrendo loro una specie di chiarificazione sull’accaduto per capirne il vero senso. L’intervento è strutturato da due domande che si susseguono e nelle quali sono poste in relazione la paura e la fede: perché siete paurosi? (prima domanda); non ancora avete fede? (seconda domanda). I due interrogativi non hanno tanto il sapore di investigare su qualcosa di sconosciuto, quanto piuttosto di svelare i sentimenti di insicurezza che albergano nel cuore dei compagni di viaggio. Con quelle richieste il maestro esprime un delicato richiamo, per palesare i loro stati d’animo e insieme per educarli verso una maggiore maturazione spirituale; non si attende una risposta, ma vuole attestare un dato di fatto e suscitare uno scuotimento salutare. Si può dire che si tratta di un biasimo benevolo.

Marco pone qua il primo rimprovero ai discepoli, cui seguiranno molti altri, come si avrà modo di vedere (7,18; 8,17-21.32s; 9,19; 16,14). 

Con la sua parola, Gesù evidenzia la paura che essi hanno avuto. È ovvio che si tratta del panico di fronte al pericolo estremo, quando si è angosciati dalla minaccia della morte. I discepoli si trovano in una situazione che mette in pericolo la loro esistenza e da cui nasce in loro la paura di morire perché incalzati dall’irruzione della tempesta, in mezzo al lago, su una barca che prende acqua e sta per affondare, diventando non più un luogo sicuro, ma strumento di catastrofe. La fede avrebbe dovuto contrastare il loro spavento, rendendoli più calmi e sicuri. In questo contesto, la fede non vuol significare una generica religiosità nell’ammettere l’esistenza di un Dio che viene in soccorso; essa concretamente indica l’atto di affidarsi a Gesù per resistere a tutti gli attacchi delle potenze ostili. Si noti che in Matteo si accenna alla “poca fede” (oligopistia), termine caro all’evangelista; in Luca c’è la domanda: “Dove sta la vostra fede?”.

I discepoli allora non sono rimproverati perché provano sgomento, ma perché non hanno fede, o meglio, hanno provocato un cedimento nella fede. Il panico che li prende è soltanto il sintomo che segnala la mancanza di fede.

 

La reciproca comunione

       Il loro comportamento non si conforma a quello di quanti non credono e di fronte ai pericoli della vita hanno paura. Davanti alla minaccia della morte, essi si sono rivolti a Gesù, hanno sollecitato il suo intervento, hanno preteso in certo senso che egli si curasse di loro; lo hanno svegliato perché si rendesse conto della situazione estremamente pericolosa. Hanno così manifestato che confidavano in lui, anzi che l’unica speranza era riposta nel suo intervento. Il loro atteggiamento non si uguaglia a quello dell’incredulo, dell’ateo o dello stolto che dice: “Dio non esiste”. Essi lo chiamano maestro. Sanno che possiede un’autorità particolare e che ha già operato meraviglie, delle quali sono stati spettatori attoniti. Godono di un rapporto privilegiato con lui, sono depositari dei suoi medesimi poteri, possiedono il dono di poter conoscere il mistero del regno. In questa occasione lo comprendono ancor di più, in quanto constatano che la signoria di Dio si esplica nella sua persona e nelle sue azioni salvifiche.

Il motivo per cui sono ripresi consiste nella reazione che hanno avuto nei confronti del maestro addormentato in poppa, interpretandolo come un segno di disinteresse. Questa delusione rispetto a quanto si aspettavano decifra la loro difficoltà a credere e li precipita nel terrore. Non è la spontanea insurrezione della paura a denotare la mancanza di fede, ma il loro stato di diffidenza in lui, il dubitare del suo amore, la non accettazione del suo modo di comportarsi che appariva in contrasto con la loro ansia: lui dormiva placido, mentre essi stavano per affondare.

Si attua un dissidio tra le aspettative dell’uomo, impigliate dentro visuali commisurate al suo modo tipico di ragionare, e il disegno salvifico di Dio, che in forza della sua onnipotenza può usare strumenti e maniere diverse per venire in soccorso alle indigenze umane. La rottura tra le due vedute, umana e divina, provoca la crisi di fede, il dubbio, la trepidazione, l’inquietudine. Spesse volte questa incrinatura si constata nella vita del credente, il quale, pur disposto a dare l’adesione a Dio, viene meno nell’affidamento, quando si accorge che i suoi progetti non corrispondo a quelli divini, o meglio, quando la potenza di Dio non si piega alle sue proposte. Da qui il disagio a credere. Mentre bisogna essere sempre certi che Dio sia pronto a sovvenire alle umane necessità vitali, non secondo la nostra, ma secondo la sua volontà. Proprio su questo punto delicato Gesù coglie la sfiducia dei discepoli e li vuole amorevolmente ammonire. 

Pur in mezzo al trambusto e all’insicurezza, il bello sta che gli uni e l’altro ritrovano il modo per intendersi e ricostruire un sincero rapporto di reciproca collaborazione, richiamandosi a vicenda. Entrambi si comunicano attraverso la domanda. Essi dicono in forma interrogativa: non ti curi che moriamo?; lui si rivolge a loro ugualmente dicendo: perché avete paura? ancora non avete fede? Le due interrogazioni esprimono bene due stati d’animo nei discepoli e in Gesù. Da un lato gli interlocutori manifestano una confidenza amichevole, per suscitare l’interesse reciproco: i discepoli svegliano il maestro  e questi va subito incontro alla loro richiesta riportando la calma; dall’altro lato ambedue sono mossi da un certo disappunto: i discepoli riprendono il maestro perché dorme e lui li biasima per la loro mancanza di fede. D’altronde i veri amici si aiutano a vicenda per rafforzare e verificare la loro comunione. Se nel suo amore Gesù è messo alla prova dai discepoli, anche questi sono da lui verificati nell’autenticità della loro fede.

 

La domanda cristologica

       “E furono terrorizzati da grande timore si dicevano gli uni gli altri: ‘Chi è mai costui, che sia il vento sia il mare gli obbedisce?’” (v. 41). Questo versetto conclusivo registra un altro tipo di timore che promana dall’animo dei discepoli e a cui fa seguito un’altra domanda che essi si pongono gli uni gli altri circa l’identità di quel personaggio che sta con loro sulla barca e che da tempo hanno seguito. Un timore assai difforme dall’antecedente, provocato non dallo spavento, ma dalla meraviglia e dallo sgomento davanti all’avverarsi di qualcosa fuori dal comune, nello sperimentare la presenza e la vicinanza di Dio. Il brano quindi acquista una caratteristica epifanica, in quanto Gesù si manifesta quale dominatore delle potenze ostili della natura. I discepoli al contatto di questo evento si sentono attraversati da un sussulto poiché stanno al cospetto di colui che ha operato un fatto portentoso con poche parole di comando.

Essi erano stati spettatori di molte guarigioni e liberazioni. In questa circostanza sono coinvolti in prima persona: sia perché proprio loro sono sul punto di annegare sia perché la potenza di Gesù supera ogni aspettativa. Si trovano di fronte a una realtà che supera la dimensione dell’umano e che li lascia sbalorditi. È la trepidazione dinanzi all’epifania del trascendente; il timore religioso; l’emozione che conduce a porre  l’interrogativo: chi è costui?

Se la paura dell’annegamento induceva i discepoli ad avvicinarsi a Gesù per svegliarlo e chiedere il suo aiuto, il timore davanti all’intervento miracoloso li conduce sempre a lui, ma per rendersi conto chi mai egli sia. L’identità della sua persona, che domina sui venti e i mari, pone conseguentemente quell’interrogativo del tutto giustificato.

Proprio lui, nel suo modo di essere e di agire genera curiosità e timore: da una parte si sa che solo Dio creatore può impartire ordini al vento e al mare; dall’altra si è visto che il vento e il mare hanno obbedito a quell’uomo che sta sulla barca e che poco prima dormiva tranquillamente. Da una parte si constata l’azione trascendente di Dio e dall’altra si vede un essere umano assopito, risvegliato e stimolato da loro. Innegabilmente ci si trova davanti al mistero di Cristo. Due grandi sorprese suscitate dalle due paure: il disappunto per l’uomo che dorme e la meraviglia per il maestro che comanda ai venti e al mare; eppure si tratta di un unico soggetto, dello stesso Gesù.

 

Conclusione: Gesù al centro dell’interesse

       Su di lui si focalizza l’attenzione di Marco e l’interrogativo cristologico fa da linea conduttrice del suo Vangelo, di cui questo brano costituisce un punto fondamentale. Lo sguardo però non si ferma solo su di lui, ma si rivolge al lettore per stimolare un senso di meraviglia, perché costui che comanda sui venti aveva dichiarato che i discepoli formano la propria famiglia e sono sua madre, fratello e sorella. Lo sconvolgimento nasce proprio dalla sua persona che nel momento in cui si rivela onnipotente crea anche la familiarità con l’uomo che crede in lui.

Se si confronta questo passo con quello della liberazione dell’indemoniato a Cafarnao, si riscontrano alcuni tratti che li accomunano. In entrambi è notificato lo stupore; in entrambi si registra la potenza della parola di Gesù che comanda ai demoni ed essi obbediscono o che ordina al mare e al vento ed anch’essi si sottomettono. Inoltre nei due racconti alla fine è posta la domanda: nel primo la folla si chiede: “Che è questo? una dottrina nuova con autorità”; nel nostro brano i discepoli si fanno la domanda: “Chi è mai costui, che sia il vento sia il mare gli obbedisce?” Là è la folla a porre la questione, qua i discepoli. Si nota però una leggera differenza: là l’interesse verteva sull’opera di Cristo, sul fatto che egli libera dai demoni, cioè sugli effetti benefici da lui provocati: “Che è questo?”. Invece ora l’attenzione si concentra sulla sua persona: “Chi è mai costui?”; ci si sofferma non più sul portento, ma su colui che lo compie. Si attua così un cammino di fede che approda alla conoscenza di Gesù, verso cui sono indirizzati i discepoli in modo da mettere a punto l’identità del maestro e sconfiggere il timore.

Sotto tale angolatura si capisce la sequenza di domande scaturite lungo il racconto. Vi è il dubbio riguardante il suo amore: “Non t’importa che periamo?”; vi è l’invito a rivedere la propria fede: “Non ancora avete fede?”; vi è infine lo stupore: “Chi è mai costui?”.


Accoglienza e riconoscimento

Mc 7,24-37

 

         Il passo evangelico si sofferma su due azioni miracolose che Gesù compie in territorio pagano: la liberazione del demonio dalla figlia di una donna sirofenicia, avvenuta nella regione di Tiro, a nord-ovest della Galilea; la guarigione del sordomuto, effettuata nella zona della Decapoli, posta ad est del lago di Tiberiade, durante il ritorno in Galilea.

I due interventi salvifici sono inseriti all’interno dello spaccato chiamato “sezione dei pani”, che comprende due blocchi paralleli e corrispettivi: entrambi iniziano con un racconto della moltiplicazione dei pani, riferiscono poi della controversia con i farisei, successivamente includono i discorsi di Gesù in privato ai discepoli, infine concludono con la descrizione di miracoli: nel primo la liberazione della figlia della donna pagana e il risanamento del sordomuto, nel secondo la guarigione del cieco di Betsaida.

 

24Ora, levatosi di là, se ne andò nella regione di Tiro

e, entrato in casa, non voleva che alcuno lo sapesse,

ma non poté nascondersi.

25Ma subito, udito di lui, una donna,

la cui figlia aveva uno spirito impuro,

venuta si prostrò ai suoi piedi.

26Ora la donna era greca, di origine sirofenicia,

e lo pregava di scacciare il demonio da sua figlia.

27E (Gesù) le diceva: “Lascia che prima si sazino i figli,

poiché non è bene prendere il pane dei figli

e gettarlo ai cagnolini”.

28Ora ella rispose e gli dice:

“Signore, anche i cagnolini sotto la tavola

mangiano dalle briciole dei bambini”.

29E (Gesù) le disse: “Per questa parola, va’,

il demonio è uscito dalla tua figlia”.

30E andata nella sua casa, trovò la bambina stesa sul letto,

e il demonio uscito.

 

In territorio pagano

       La descrizione del primo miracolo (7,24-30) inizia in questo modo: “Levatosi di là, se ne andò nella regione di Tiro” (v. 24a). Gesù parte dalla regione di Genezaret, luogo della sua abituale attività, e si dirige nella costa mediterranea, nella Fenicia, di cui Tiro e Sidone sono il capoluogo. In precedenza si era inoltrato in territorio pagano, precisamente nella regione di Gerasa, ad est del lago. Quale il senso o il motivo del suo spingersi in zone esterne al mondo religioso giudaico? È forse questione della sua disponibilità che si allarga anche alle persone fuori del suo ambiente, là dove c’è sofferenza e dolore, oppure è in atto quel fenomeno che suole definirsi “crisi galilaica”?

Il testo notifica: “Entrato in casa, non voleva che alcuno lo sapesse, ma non poté nascondersi” (v. 24b). Con tale precisazione si sottintende che Gesù non ha l’intenzione di predicare e incontrare le grandi folle nei villaggi o nei centri abitati, ma preferisce restare nel nascondimento, probabilmente per rivolgere la sua cura soprattutto ai discepoli e ad altri intimi. Tuttavia la sua fama ha ormai varcato i confini della sua patria e perciò il suo arrivo non può rimanere inosservato. Già al cap. 3 l’evangelista aveva annotato che molte persone, avendo sentito le meraviglie che stava facendo, erano venute da lui e tra queste alcuni provenivano dalle parti di Tiro e di Sidone. Ritornando nel loro territorio, senz’altro avranno diffuso la notizia intorno a quel personaggio ebreo che possedeva una straordinaria potenza liberatrice.

Gesù entra in una casa: naturalmente si tratta di una casa di pagani, sebbene non sia specificato. Frequentemente il testo evidenzia il fatto che egli si introduce nelle abitazioni, per raggiungere gli uomini là dove vivono quotidianamente e si radunano nella condivisione familiare. Inserendosi in ambienti pagani, travalica le tradizioni religiose, confermando il suo pensiero esposto nel brano precedente. Non bada alla contaminazione legale e mostra una profonda libertà, sorvolando su precauzioni o cautele formali, pur di avvicinare ogni individuo bisognoso e miserevole.

 

Una donna greco-fenicia

       Così accade, come è detto immediatamente: “Subito, udito di lui, una donna, la cui figlia aveva uno spirito impuro, venuta si prostrò ai suoi piedi” (v. 25). Una donna, per di più sirofenicia, cioè pagana come è precisato di seguito. Sorprendono il suo coraggio e la sua spigliatezza, nonché la sua prontezza in forza della quale, appena ha avuto sentore dell’arrivo di Gesù, irrompe nella casa dove è alloggiato quell’uomo famoso, quantunque straniero per lei. Non si preoccupa tanto del probabile disturbo e della inopportuna intromissione, tanto più che il maestro aveva espresso il desiderio di restare nell’anonimato, non desideroso per il momento d’incontrare persone.

Quella donna si precipita, presa totalmente e immersa nella sua grande afflizione, nel suo immenso dolore. Il gesto più concreto e spontaneo è di gettarsi senza indugio ai suoi piedi, in segno di venerazione e di supplica, prostrandosi come fosse all’estremo delle forze e aggrappandosi all’ultima speranza che poteva ancora albergare nel suo animo.

 Ella probabilmente aveva saputo del potere straordinario di Gesù per risanare ogni male e soprattutto per comandare sui demoni, che gli si sottomettono. Proprio questo occorre per il suo caso disperato. La sua conoscenza intorno alla persona del Cristo serve da base e da sostegno per la sua audace richiesta; la sua fiducia è riposta unicamente in colui che può risanare la situazione, in quanto ne possiede la potenza.

Il racconto informa che è madre di una figlioletta posseduta da uno spirito immondo. La notificazione accresce la drammaticità dell’episodio e giustifica i gesti pressanti e fervidi del comportamento della donna. La madre non vive che per sua figlia, non ha altro scopo che poterla liberare dal suo stato pietoso. Per questo non si cura di perdere tempo in convenevoli né si ferma davanti agli ostacoli sociali o personali. Va diritta e sicura all’essenziale, vuole giungere da Gesù, nella fiduciosa speranza di ottenere il bene della bambina. Nient’altro la preoccupa.

Il lettore sa che il maestro ha il potere di liberare gli uomini dagli influssi demoniaci, anzi aveva concesso ai Dodici la medesima facoltà. Egli “il più forte”, come lo aveva preannunciato Giovanni Battista, possiede una potestà superiore, che gli viene da Dio. È un aspetto caro all’evangelista.

Come si è avuto modo di sottolineare più volte, i demoni tolgono all’uomo la libertà di disporre del proprio corpo e del proprio spirito. Lo gettano a terra, lo fanno urlare e infierire contro la propria persona, lo allontanano dalla comunione con gli altri e lo espongono al pericolo di perdere la vita. Tutta la loro azione si spinge a tormentare gli uomini e a recare loro danni di ogni genere. Si può immaginare quale dramma si svolga nella casa della donna, dove una sua figlia è tormentata dal diavolo. Ma le circostanze hanno fatto sì che ora ella si trovi di fronte a colui che più volte ha liberato gli indemoniati e che non può rifiutare la richiesta, né chiudere il cuore al grido di una madre in pena.

 

La madre davanti a Gesù

      “Ora la donna era greca, di origine sirofenicia” (v. 26a). Prima di annotare la richiesta della mamma in favore della figlia, Marco delinea alcuni tratti della donna. Anzitutto dice che non è ebrea, vivendo in una zona pagana o semi-pagana, dove gli israeliti aveva formato dei centri e vi erano presenti mischiandosi con i pagani. Inoltre si aggiunge che è “greca”, cioè di cultura e di lingua greca. Nei testi del NT l’espressione “greco” si oppone a “giudeo” per sottolineare una persona non appartenente alla religione giudaica, non segnata dalla circoncisione. Marco aggiunge che ella era “sirofenicia” e quindi indigena, di origine locale. Matteo la denomina “cananea” per indicare gli abitanti della Palestina e dei dintorni che non praticavano il culto ebraico, con una colorazione peggiorativa e con una denominazione arcaica.

Descrivendo i tratti della donna l’evangelista evidenzia come si trovi in una posizione distante da Gesù; i due personaggi sono profondamente diversi e lontani, per lingua, razza, condizione sociale, per etnia e per religione, oltre che per sesso. Difficile anche capirsi perché non parlano la stessa lingua.

Strano il modo di procedere di Marco: all’inizio del racconto fa vedere come la donna entri in casa e si diriga direttamente da Gesù, gettandosi ai suoi piedi, ravvicinando i due soggetti. Ora invece rimarca le differenze che sembrano allontanarli. Si incontrano e si discostano in una speciale conflittualità.

È lei che rompe il silenzio con la supplica e supera l’imbarazzo verosimile che la sua intrepidezza ha provocato in Gesù e sugli astanti. Chi è costei? Cosa pretende? Perché tanto ardimento? Il brano non esplicita le parole dette dalla madre per la figlia, ma semplicemente attesta la sua supplica: “E lo pregava di scacciare il demonio da sua figlia” (v. 26b). È usato l’imperfetto e non il presente storico, né l’aoristo: “Lo pregava”, per evidenziare l’insistenza, la continuità, la pertinacia della domanda. Ciò manifesta sia l’intensa angoscia materna sia il forte desiderio dell’intervento liberatorio, che Gesù certamente può compiere. Si intrecciano nel suo animo due sentimenti che, se appaiono contradditori, in effetti si commisurano e si rafforzano: la preoccupazione umana e la fiducia spirituale. Ambedue fanno pressione su Cristo, il quale sembra non volerne sapere e pone resistenza. Per quale ragione?   

La donna non chiede qualcosa per sé, si fa avanti e intercede a favore della figlioletta. Non è la prima volta che l’evangelista narra casi simili. Più volte si è soffermato su individui protesi a intervenire per il bene di altri. Simon Pietro prega Gesù a beneficio della suocera malata; quattro persone calano dal tetto il paralitico ai piedi di Gesù; sovente i genitori intercedono per i bisogni dei figli, come Giairo per la figlioletta di dodici anni, oppure, lo si vedrà in seguito, il padre del ragazzo indemoniato ed epilettico. Quindi l’intercessione o la mediazione è un aspetto che rientra nell’economia delle narrazioni evangeliche per mostrare una certa solidarietà nella fede, in modo che per mezzo di amici o di parenti si ottenga un risultato soddisfacente. È ovvio che la cooperazione si fa più intensa qualora malati o indemoniati siano i figli, come in questo episodio, la cui novità è che la madre non conduce la figlia malata a Gesù, né gli chiede di venire a casa sua, ma ottiene una guarigione a distanza.

 

Gesù di fronte alla donna

       Davanti all’insistenza della donna il maestro lancia come una sfida: “E (Gesù) le diceva: ‘Lascia che prima si sazino i figli, poiché non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini’” (v. 27). Non è proprio un rifiuto, ma un modo per farle capire che per lei, non inserita nel popolo giudaico, quello non era il momento adatto e avrebbe dovuto aspettare fino a quando i figli di Israele fossero stati saziati. Oppure, più fortemente, quelle parole vogliono porre una netta separazione fra il trattamento privilegiato riservato agli israeliti e quello di fatto inesistente per i pagani.

La risposta pertanto suona dura e anche sconveniente, sprezzante. Neppure l’espressione “cagnolini” addolcisce più di tanto la durezza del contenuto. Infatti gli ebrei si consideravano figli di Dio e talvolta per disprezzo disegnavano i pagani con il termine di “cani”, esseri impuri da evitare. Tuttavia la frase va ben compresa. Marco usa anche in questo caso il tempo imperfetto: “Gesù le diceva”. Si è visto che la donna con insistenza chiede il miracolo supplicandolo ripetutamente, ora Gesù si rivolge a lei con uguale tenacia. La conflittualità tra i due perdura e non si risolve solo con una battuta. D’altra parte l’espressione va inserita all’interno della storia della salvezza, che abbraccia diverse tappe e si prolunga nel tempo. Il progetto divino ha una sua configurazione, dentro la quale assume un ruolo centrale il popolo d’Israele quale depositario della promessa.

Ai figli di questo popolo anzitutto vanno riversati i beni promessi, non ad altri. Il pane, che fuori metafora indica la ricchezza salvifica dell’era messianica, va dato a coloro ai quali è stato promesso, cioè ai figli. Per questo Gesù precisa che per primi sono loro a beneficiarne: “Lascia che prima si sazino i figli”. La puntualizzazione del tempo, con l’avverbio “prima”, fa intendere che è giunta l’attuazione delle attese con la venuta del Messia. Le due moltiplicazione dei pani stanno propriamente a segnalare tale evento di pienezza benefica. Per questa ragione occorre lasciare anzitutto ad Israele il tempo di assaporare la salvezza messianica, sebbene il popolo non vorrà sfamarsi e rifiuterà il Messia.

Infatti Gesù avverte che “non è bene” prendere il pane dei figli, cioè la grazia della redenzione spettante ad Israele, e buttarlo ai cagnolini. “Non è bene” nel senso che non rientra nella volontà di Dio, nel suo progetto salvifico. Egli non s’identifica ad un generico guaritore o a un esorcista avventizio, ma intende corrispondere al piano divino e attuare la missione ultima, per mezzo della quale si fa vicino il regno di Dio.

Ne consegue che le sue parole affermano una visione fedele al progetto salvifico, di cui si responsabilizza per portarlo a compimento, senza sbavature o compromessi di alcun genere. Esse non vanno considerate solo a livello psicologico, come se fossero dette per provare la fede della donna o constatare la sua umiltà e sottomissione. Ciò non toglie che costituiscano una provocazione, che mette a duro sforzo la resistenza interiore e la forza spirituale della madre, la quale non si arrende, anzi mostra brillantemente di saper affrontare e superare questo ulteriore sbarramento. E ribatte con prontezza e sagacemente: “Sì, Signore, ma anche i cagnolini sotto la tavola mangiano delle briciole dei figli” (v. 28).

 

La persistente audacia della madre

       L’appellativo “Signore”, con cui ella si rivolge a Gesù, può assumere semplicemente una sfumatura di cortesia, tuttavia in Marco il termine è applicato a Dio e a Gesù, per stabilire tra l’uno e l’altro una certa uguaglianza comportamentale nei confronti degli uomini, in modo che Gesù si pone dalla parte di Dio per esercitare la sua signoria. Egli possiede una potenza antidemoniaca nella quale fin dall’inizio la supplicante confida e che la conduce a scoprire l’identità di quell’ebreo quale Signore.

Dalle sagge e sorprendenti parole si vede bene che la greca non si arrende, non si dà per vinta, non retrocede di fronte alla cruda realtà messale davanti, né la contraddice. Esse non denotano soltanto la sua umiltà, che accetta di essere trattata come se fosse un cagnolino, né mostrano soltanto l’insistenza della supplica (come è maggiormente marcato in Matteo), ma rivelano un orizzonte più vasto dentro il quale ella si pone in modo intelligente e rispettoso.

 Di fatto si innesta meravigliosamente nella dichiarazione rivoltale da Gesù, non la contesta. Dice: “Sì”, è vero, va bene come tu dici. L’accoglie con l’adesione del suo animo, rendendosi ossequiosa al progetto divino, né volendo prevalere sui privilegi di Israele, per togliere il pane dalla tavola apparecchiata per i figli. Non è questo il suo intendimento. Ella fa buon viso anche alla metafora dei figli e dei cagnolini, capendone il significato senza prevaricazione o distorsione, ma accontentandosi delle briciole che cadono dalla tavola dove mangiano i figli. La ricchezza salvifica che Dio trasmette con Gesù, cioè il pane della redenzione, appare così abbondante, che sussiste anche per lei una piccola parte, alcuni frantumi. I due miracoli della moltiplicazione dei pani lo rivelano chiaramente.

Se Gesù ha parlato di un tempo in cui il beneficiario della salvezza è il popolo d’Israele, la donna afferra l’attualità dell’evento redentore in cui scopre la presenza di una unica casa e di una unica mensa dove mangiano sia gli uni, gli ebrei, sia gli altri, i pagani, nello stesso istante. Non deve attendere un momento storico posteriore, nel quale anche ai pagani verrà portata la salvezza messianica. Fin d’ora, anche lei, con la figlia malata, può condividere il cibo, sebbene non sedendo a tavola con i figli, ma accontentandosi di restare ai loro piedi, come i cagnolini, per racciumolare i frammenti.

 

Conclusione: L’unione spirituale tra i due

       Una stupenda armonia interiore emerge dall’animo di questa sirofenicia. Da una parte sprigiona un acume singolare, che sa vedere al di là delle apparenze, per sondare l’infinita sapienza e provvidenza divine, dall’altra spicca la prontezza di cogliere al balzo l’opportunità della salvezza e di non attendere altro tempo. Ella è lì, con le mani e il cuore aperto, per strappare il miracolo e vi riesce, grazie alla sua oculatezza e alla sua flessibilità. Si pone poveramente alla stregua dei cani, ma si innalza dignitosamente fino alla mensa dei figli per carpire il pane della redenzione che vi cade.

In tale contesto si comprende la reazione di Gesù: “Le disse: ‘Per questa parola, va’, il demonio è uscito dalla tua figlia’” (v. 29). Marco non pone in rilievo la fede, come fa Matteo, ma sottolinea puramente la “parola” della donna. Una parola illuminata e veritiera, che dimostra che ella si è inserita nel disegno di Dio, lo ha accettato, lo ha capito e lo ha fatto suo con grande umiltà. Di fronte a questa parola Gesù non può fare altro che esaudirla, dichiarando l’avvenuta liberazione della figlia. Egli sa che è guarita, non solo perché conosce tutto, ma ha colto la profondità della risposta della donna. Nella consapevolezza del piano salvifico determinato dal Padre, si rende conto che ella lo ha fatto suo e pertanto vi rientra giusto giusto per ottenere quanto desiderato e domandato.

Dinnanzi alla solenne dichiarazione la madre non esige un segno di conferma, ma crede semplicemente, certa che quanto Gesù le ha detto corrisponde alla realtà. Le è stato concesso più di quello che sperava, in quanto la liberazione è avvenuta a distanza senza alcun contatto o vicinanza fisica, come si riscontra in tutti gli altri miracoli.

La conclusione risuona con la felice constatazione: “Andata nella sua casa, trovò la bambina stesa sul letto; e il demonio uscito” (v. 30). Ella può accertarsi della verità dell’attestazione di Gesù e insieme riscontrare che le briciole della salvezza sono arrivate anche in casa sua, come lei aveva sostenuto. Finalmente può vedere la bimba distesa sul letto, libera dagli assalti demoniaci e pienamente risanata. Stupore, gioia incontenibile, abbraccio nella comunione ritrovata tra madre e figlia. Che cosa di più stupefacente?


 

 

 

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