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Approfondimenti

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LA COMPASSIONE PER I SOFFERENTI



Nel compiere i miracoli Gesù manifesta un aspetto significativo e profondamente umano della sua personalità e del suo stile di vita. Egli infatti partecipa vivamente alle sofferenze degli uomini, al loro stato di miseria e di malattia, fino a prendere sopra di sé le infermità di tutti (Mt 8,16-17). Non agisce rimanendo al di fuori, come estraneo (Gv 10,5), ma sente e condivide il peso dell’umanità sofferente; per questo vuole alleviare il male, risanare i corpi e consolare i cuori. Lo stesso spirito di servizio, con cui salirà sulla croce per salvare il popolo, egli lo vive e lo attua in anticipo in questi momenti particolari, nei quali si sente vicino a chi soffre (Mt 14,14). Si fa compartecipe del dolore degli altri dal di dentro del suo animo, vibrando di un amore intenso che lo porta a guarire le piaghe, a moltiplicare i pani per la gente affamata, a fare di tutto per sollevare i più poveri e i più bisognosi. Di fronte al dolore, alla fatica, alla morte (Gv 11,35.38), egli si commuove, provando quel sentimento profondo di commiserazione in forza del quale il dolore degli altri diventa il suo dolore.
Assumendo in sé, nella disponibilità dell’amore, le tribolazioni anche fisiche, egli ne diventa il vero guaritore e salvatore, colui che accoglie il fratello ammalato prima nel suo cuore, guarendolo con l’amore, e poi lo ristabilisce in salute. La forza straordinaria dei suoi miracoli sta anche in questa sensibilità e compassione dell’animo, oltre che nella potenza divina. Egli è il buon samaritano che, pagando di persona, si prende cura concretamente dell’uomo ferito e abbandonato sulla strada; lo porta con sé, facendolo curare e rimettendolo in vita (Lc 10,33-37). Gesù si pone a fianco dell’umanità, sbandata come gregge senza pastore (Mc 6,34), l’avvolge della sua amorevolezza e della sua pietà, la prende fra le sue braccia e la conduce alla salvezza (Lc 15,5; Gv 10,10-11).


1. La commozione per una madre afflitta

Nell’incontro con la vedova di Nain (Lc 7,11-17) si vede bene la profonda sensibilità di Gesù. Ci si trova davanti ad una situazione umanamente tragica: un morto viene portato al sepolcro per la sepoltura; vi è accanto una donna, indicata nella stretta unione che la lega al cadavere, è la madre; si dice che il figlio morto è unico e che essa è vedova. La folla numerosa segue il feretro, si associa alla madre, condividendo un dramma non solo familiare, anche cittadino. D’altro verso Gesù si dirige alla volta di Nain, con i discepoli e la folla che lo accompagnano. I due gruppi, il corteo funebre e la comitiva al seguito di Cristo, procedono in direzione opposte e si incrociano. L’evangelista non si sofferma sui sentimenti che albergano nell’animo delle persone, non dice che la donna piange; lo farà intendere Gesù. I discepoli non pregano il Maestro di dare il suo aiuto per alleviare quella situazione pietosa; essi non intervengono. Neanche la donna chiede qualcosa. Nemmeno la gente intercede a suo favore.
In questo modo Luca vuole mettere in evidenza l’iniziativa di Gesù. Se anche lui fosse passato accanto, senza fermarsi, nessuno dei presenti avrebbe conosciuto la salvezza. Ma non è stato così. Cristo mostra un’attenzione particolare, una profonda sensibilità, un’accortezza del tutto originale. Egli si ferma, consapevole che lì c’è sofferenza, lutto, dolore. È venuto precisamente per portare il lieto annuncio ai poveri.
Sebbene nessuno chieda l’aiuto, Gesù interviene in modo inaspettato e sorprendente. La salvezza non va concepita esclusivamente come risposta alle attese dell’uomo. Essa sovrasta le aspettative umane, in quanto è dono gratuito di Dio, un intervento di valore superiore inatteso, non programmato, frutto non di un calcolo o di un progetto alla portata delle capacità umane.
Resta il fatto che nessuno dei presenti implora qualcosa, anche perché il giovane è già morto. A chi si potrebbe domandare aiuto in una situazione estrema come questa? Chi può avere un rimedio contro la morte? Questa costituisce il confine invalicabile per qualsiasi intervento sanatorio: né la medicina, né le cure premurose, né la ribellione, né alcun’altra cosa possono offrire un rimedio. Non esiste possibilità di vincere la morte.
La morte incute terrore non solo a quelli che muoiono, ma anche certamente a coloro che restano vivi. In questo senso Luca indica il giovane defunto e insieme la madre e i concittadini che soffrono con lei.
La donna è vedova; la morte l’aveva separata dal marito. La stessa morte ora la dissocia definitivamente da suo figlio, l’unico che aveva. In tal modo la morte strappa via anche la sua maternità effettiva; la rende inerte, infeconda, sola. Si ritrova una donna abbandonata a se stessa, senza più nemmeno il sostegno economico, procurato dal marito o dal figlio.
Luca dichiara: “Il Signore” (vedendola); non dice semplicemente che Gesù l’ha vista, ma usa un titolo a lui caro, il Signore. Gesù è il Signore della vita, colui che ha il potere di liberare dalla morte. Ciò che sorprende è l’accostamento dell’evangelista tra questo titolo altamente onorifico e l’atteggiamento di compassione verso la donna. Gesù è Signore, ma è capace di avvicinarsi alla creatura umana. Un “Signore” che sta alla pari con Dio e che insieme si commuove con l’uomo: un binomio insolito, quasi contraddittorio.
Il testo aggiunge: “Vedendola”, cioè vedendo lei, per evidenziare che il Signore si interessa prevalentemente della donna e il suo sguardo si fissa su di essa. La sua attenzione non si posa sul morto, ma sulla madre di lui che piange. Il fulcro, attorno a cui si muove il brano, non è tanto la vicenda dolorosa della morte, né il ritorno alla vita, ma è propriamente lei, quella donna, una madre, già vedova, che ha perduto il figlio unico. Gesù la vede e ne percepisce tutta l’angoscia. L’atto di “vedere” di Gesù non corrisponde a uno sguardo generico, distratto o superficiale, né a un atto scrutatore intriso di curiosità. Qualcosa di più profondo, come si vedrà, esprime l’occhio di Cristo puntato su quella donna.
“Si commosse per lei”, con un amore viscerale, che viene dall’intimo dell’essere. Vedere e sentire compassione: due atti tra loro intrinsecamente correlati; presi insieme offrono la visione di un animo interiormente ricco e sensibile, come quello di Gesù. Se vi è solo l’azione del vedere, senza il movimento del cuore, essa resta su di un piano di astrazione e di inefficienza; se, al contrario, si muove l’interiorità che non sia preceduta da uno sguardo accurato e preciso, essa decade nel sentimentalismo istintivo e superficiale. Il vedere dunque deve suscitare la sensibilità interiore, mentre questa è diretta e guidata dall’occhio perspicace e attento.
Dice alla donna: “Non piangere”. Con queste parole Gesù svela i sentimenti della madre, la sua sofferenza; insieme la esorta al conforto e alla speranza. Egli mostra che stava piangendo, quasi per destare negli astanti il suo medesimo sentimento e invitarli a guardare questa donna come la guarda lui, per sentirne compassione.
“Accostatosi, toccò la bara”. Ora il racconto si trasferisce dalla madre al figlio. Gesù si fa vicino fino a toccare la bara, oltrepassando i limiti delle prescrizioni giudaiche e mettendosi a contatto diretto con quell’essere inanimato, stretto dal morso della morte.
Al gesto di Gesù il corteo si arresta: “I portatori si fermarono”. Questi camminano diretti al sepolcro, orientati alla definitiva scomparsa del giovane, con la tumulazione del suo cadavere. Tale movimento di disintegrazione totale è interrotto in modo decisivo e radicale da Gesù. Egli non fa arrestare il feretro per benedire il cadavere o per pronunciare un discorso di commiato. La realtà nuova che appare è ben diversa: il tragitto verso la tomba non si attuerà. Il giovinetto ricupererà l’energia vitale, muovendosi in senso opposto rispetto al corteo funebre, in direzione della vita, non della tomba. Con Gesù il sepolcro non costituisce l’ultimo luogo dell’esistenza umana.
Le sue parole ne sono una testimonianza: “Giovinetto, dico a te, alzati” (egheirō: svegliarsi, e quindi alzarsi). Il suo invito risulta onnipotente ed efficace: “Dico a te”. Gesù non parla nel nome di Dio, ma in prima persona, in quanto egli possiede la stessa autorità e potenza divine.
Emergono in questo modo la complessità e la misteriosità della sua persona. Di lui sono evidenziati sia l’elemento umano, la sua compassione, la sua vicinanza (“non piangere”), sia l’elemento divino, la sua autorità sovrana (“dico a te”). Egli è un uomo che vede, si ferma compartecipe, ma è anche il Signore che dona la vita.
Avviene così l’imprevedibile: “Il morto si levò e cominciò a parlare”. Ecco il fatto nuovo e sconvolgente, pur nella sua semplicità e naturalezza. Il giovane è tornato all’esistenza e ne mostra la tangibilità, perché da disteso si pone a sedere, da silenzioso si mette a parlare. Si coglie subito il passaggio straordinario dalla morte alla vita, dalla staticità al movimento, dal mutismo alla loquacità. Chi avrebbe potuto neanche pensare una simile cosa? Un evento veramente inconsueto e inatteso. Da qui lo sconcerto, la meraviglia, l’esplosione di gioia e la glorificazione resa a Dio. In effetti solo Dio può compiere azioni del genere; un Dio che si fa accanto e agisce concretamente in Gesù.
Luca annota che “egli lo diede a sua madre”: è l’ultimo gesto di Cristo, quello di riconsegnare il figlio alla madre. All’inizio egli mostrò di aver pietà di lei, poi si avvicinò al figlio e lo toccò, infine la sua attenzione ritorna sulla madre. Questa insperatamente ritrova la sua maternità, nel momento in cui riceve il figlio dalle mani di Gesù; una maternità nuova, perché, quando accoglie come suo figlio questo giovane, ella sa che la vita di lui ora non proviene da lei ma dal Signore. Quel figlio è un dono, non un suo possesso. In forza dell’intervento prodigioso, la madre e il figlio recuperano in modo nuovo la loro identità. Ne consegue la gioiosa sorpresa che Gesù opera non solo la risurrezione del figlio, che torna vivo tra le braccia della madre, ma anche la fioritura di una nuova maternità nella donna che ritrova il figlio. Per ogni donna l’aspetto materno è indiscutibilmente quello più importante e fondamentale. A questa vedova di Nain il figlio, strappatole dalla morte, viene restituito da Gesù. Allora quel figlio assume un aspetto diverso, è ricoperto di una luce nuova: si riconosce come un vero dono, il dono del Signore della vita.
La morte aveva separato la madre dal figlio, estirpandolo dall’affetto materno; Gesù lo ridona, facendo rifiorire l’amore di madre. Solo lui, quale unico liberatore dalla morte, ha il potere di riunirli nuovamente. Per suo mezzo madre e figlio si riabbracciano e di nuovo è resa ad essi la vita in comunione reciproca. Il senso della vita non sta nel vivere per se stesso, ma per l’altro in uno scambio di donazione vicendevole. Il giovane può essere di nuovo sostegno e aiuto per la madre, mentre questa è pronta di nuovo a dare se stessa per il figlio. Ambedue, ritrovandosi insieme, si riscoprono nella loro verità e si uniscono in un amore più forte e sincero. Si può dire veramente che tutti due, madre e figlio, acquistino una esistenza nuova; la risurrezione tocca l’uno e l’altra, non solo a livello fisico e materiale, ma, più profondamente, in una rigenerazione spirituale che schiude il cuore alla fede.


2. L’attenzione al grido dei lebbrosi

Nel racconto della guarigione dalla lebbra (Lc 17,11-19), Luca presenta Gesù in procinto di entrare in un villaggio, probabilmente per fare sosta, mentre dieci lebbrosi gli vanno incontro. Essi stanno a una certa distanza per osservare le prescrizioni della legge secondo Lv 13,45-46: “Il lebbroso, colpito dalla lebbra, porterà vesti strappate e il capo scoperto, si coprirà la barba e andrà gridando: ‘Immondo, immondo’. Sarà immondo finché avrà la piaga; è immondo, se ne starà solo, abiterà fuori dall’accampamento”.
Il malato di lebbra in Israele, come generalmente nella società antica, non è ritenuto un semplice infermo, piagato nel corpo, ma è posto in una situazione particolare. Anzitutto veniva escluso dalla famiglia, era allontanato dalle città circoscritte con le mura e doveva vivere ai margini della vita sociale. Respinto dalla comunità religiosa, era considerato un essere castigato da Dio e la lebbra ne era il segno. Per paura di contagio, egli non poteva avvicinarsi, doveva farsi riconoscere e rimanere a una certa distanza. L’unica possibilità concessagli era di fare vita comune con le persone colpite dalla medesima malattia. Nel presente caso si tratta di un gruppo di dieci individui.
Si legge che: “Alzarono la voce, dicendo: ‘Gesù maestro, abbi pietà di noi’”. Pur stando in lontananza, nulla vieta loro di gridare, di chiedere aiuto, per superare lo spazio che li separa da Gesù, in modo che egli possa dare ascolto al loro dramma. Ancora più marcatamente il grido vuole mostrare tutta la gravità della loro disgrazia, affinché giunga al cuore del maestro e lo muova a pietà. Esso sgorga dalla fiducia che pongono in colui di cui hanno certamente sentito parlare, ne hanno conosciuto la fama e il potere di guarire.
Proseguono dicendo: “Abbi pietà di noi”. Tutti dieci sono uniti nella preghiera di petizione, originata dalla stessa miseria e dallo stesso dolore. Non avendo la capacità di aiutarsi da soli, non possono far altro che ricevere soccorso dall’esterno; in questo momento si affidano a uno che ha potere sulla loro malattia e sperano sia disposto a impiegarlo in loro favore.
In molti casi Gesù anticipa colui o coloro che si trovano in situazioni disperate, qui invece è preceduto dall’iniziativa dei lebbrosi, in quanto sono essi che invocano pietà e lui lascia che lo preghino. Tuttavia egli non si avvicina per guarirli istantaneamente, ma “vedendoli, disse loro: ‘Andate, mostratevi ai sacerdoti’”. Non solo li ascolta, ma li vede. Il fatto che Gesù veda, non denota una semplice constatazione, ma esprime una concentrazione del suo animo su di essi, un sentimento di pietà a cui fa seguito un intervento salvifico.
Le sue parole sorprendono e appaiono assai strane: “Andate, mostratevi ai sacerdoti”. Non si accosta ad essi, ma piuttosto li manda via, lontano da sé. Può dare l’impressione che voglia liberarsi di loro. Un modo di dire quasi per sbarazzarsene, nell’impossibilità di fare qualcosa per essi. Li invia dai sacerdoti senza aver compiuto concretamente nulla di buono.
Ma il testo dà subito la lieta notizia: “E avvenne che, mentre andavano, furono mondati”. Tutti e dieci hanno superato la prova della fede, hanno obbedito e ricevuto il dono della guarigione, un dono veramente straordinario per la loro vita. Non si tratta soltanto della salute riacquistata, ma più globalmente di una purificazione, che li rende di nuovo idonei a essere inseriti in famiglia e in società, un rinnovamento totale. Gesù rivolge la sua attenzione a tutti quei dieci lebbrosi, senza eccezione di persona.
Se generosa e universale appare la sua azione salvifica, altrettanto determinante e decisiva per la salvezza risulta la risposta libera dei dieci uomini. Il racconto lo fa subito notare: “Allora uno solo di loro, vedendosi guarito, ritornò indietro glorificando Dio a gran voce”. Tutti sono stati guariti, ma non tutti hanno corrisposto interiormente all’intervento miracoloso, anzi la proporzione è sorprendente: solo uno su dieci ha sentito il bisogno di glorificare Dio.
Il racconto prosegue dicendo che il lebbroso guarito “si gettò ai piedi di Gesù, ringraziandolo”. Oltre a magnificare Dio, egli ringrazia il guaritore, considerando come un dono di Dio l’opera che Gesù ha compiuto. È questo un atto di autentica fede che riconosce in Cristo lo strumento della potenza divina. Per tale motivo torna da lui e si prostra ai suoi piedi. Da lebbroso si era fermato a distanza, da sano può finalmente incontrare e vedere da vicino colui che lo ha soccorso e gli ha trasmesso la grazia di Dio.
A questo punto l’evangelista dà notizie sull’identità del lebbroso: “Era un samaritano”. Questa rivelazione fa sbigottire, suscita stupore. Gesù stesso lo rimarca: “Uno straniero”, cioè un estraneo avverso, proprio lui, che dovrebbe essere il peggiore di tutti e sinceramente detestato.
Le parole di Gesù indicano anzitutto constatazione, sorpresa amara. Pensa agli altri nove e chiede come per capacitarsi: “Non sono stati mondati i dieci? E i nove dove sono?”. Si capisce bene la sua reazione sconcertante, poiché c’è veramente sproporzione tra la salvezza rivolta a tutti e la risposta riconoscente di uno solo. Se la percentuale che si rivela dall’attuale episodio dovesse essere normativa, chiunque rimarrebbe sgomento. D’altra parte di fronte alla libera corrispondenza dell’uomo Gesù non può fare altro che riscontrare il fatto; egli non può togliere ad alcuno la libertà di accogliere la sua grazia. Da qui la domanda ansiosa e addolorata insieme: “E i nove dove sono?”. La consapevolezza che uno solo, per di più samaritano, abbia dato segno di riconoscenza, mentre gli altri si siano dileguati nell’indifferenza e nell’ingratitudine, ha per effetto un senso di tristezza.
“Non sono stati trovati coloro che tornassero a dar gloria a Dio all’infuori di questo straniero?”. L’insistenza nel domandare manifesta ancora maggiormente l’animo addolorato di Gesù, la cui azione miracolosa non ha avuto altro scopo che quello di condurre gli uomini a scoprire la gloria del Padre suo, in modo che per suo mezzo abbiano accesso alla casa paterna. Questa è la vera salvezza. Egli inoltre constata che non si è trovato alcuno che rendesse gloria a Dio, neanche tra coloro che hanno sperimentato nella loro carne l’intervento divino; nessuno di loro, eccetto uno “straniero”. Strano paradosso. Proprio costui, umanamente più lontano, è riuscito a superare ogni ostacolo per avvicinarsi a Cristo. Egli rappresenta una luce in mezzo alle tenebre, come indicano le ultime parole di Gesù, che non si sofferma più sull’ingratitudine dei nove, ma guarda questo samaritano, per lui estraneo, ma vicino, anzi intimo al suo cuore: “Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato”.


3. Il soccorso verso un malcapitato

Forse la rivelazione più toccante dell’attenzione e della compassione per chi soffre ci viene offerta dalla parabola del buon samaritano (Lc 10,30-35), che può assumere tinte rivelatrici sulla persona stessa di Gesù.
La parabola è introdotta con queste parole: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti, i quali, spogliandolo e producendo piaghe, se ne andarono, lasciandolo mezzo morto”.
La strada da Gerusalemme verso la ricca pianura di Gerico, la città delle palme, dei giardini e delle fonti termali, attraversa una regione accidentata, semidesertica, frequentata solo da viaggiatori frettolosi e da fuorilegge. Fino all’inizio del ventesimo secolo era un percorso insicuro, lungo il quale vi era sempre il pericolo degli assalti di briganti. Proprio in quella strada un passante viene violentemente aggredito e malmenato, rimane prigioniero fra le mani dei banditi, sopraffatto dalla loro ferocia. Dopo essere stato bastonato a sangue, giace esanime sulla strada, abbandonato a se stesso, nella incapacità di muoversi e di reagire in qualche modo, per riprendersi e trovare soccorso. La situazione è di estrema emergenza. È lampante che quel malcapitato abbia bisogno di aiuto ed è altrettanto ovvio che prestare assistenza costituisca un impegno di non poco conto, poiché comporta la rottura della trama e del programma prefissati; può causare un pericolo personale, per il troppo indugiare in quel luogo pernicioso.
Al versetto seguente si racconta che fortunatamente, “per caso”, passa un sacerdote, non una persona qualsiasi, ma l’uomo addetto al culto, custode e proclamatore della legge santa. Anche lui percorre il medesimo tragitto, anche lui potrebbe trovarsi nella stessa dolorosa condizione. Vede il malcapitato: riconosce pertanto la gravità della situazione, si rende conto di ciò che è successo. Questo è il dato di fatto.
Sconcertante suona la conclusione: “Il sacerdote passò oltre”, dall’altra parte. Neanche un attimo di sosta né un briciolo di pietà. La preoccupazione per se stesso, il senso della propria dignità, per non dire il richiamo alla comodità, sono state realtà più forti della compassione verso l’uomo abbandonato.
Il versetto successivo narra di un altro uomo, anch’egli addetto al culto, un levita, dirigente delle sante liturgie nel tempio. Pure lui, come il sacerdote, transita per quella strada, vede lo sventurato, non se ne cura, ma prosegue il cammino.
Resta il fatto straziante che l’uomo, maltrattato dai briganti, è ancora lì, bisognoso di assistenza, fra la vita e la morte. Chi lo potrà aiutare? Ci sarà mai una persona generosa, altruista, che avrà il coraggio di fermarsi? Oppure il povero uomo sarà destinato a essere lasciato lì a morire? Sembra abbandonato da tutti: e dai briganti, dopo che gli hanno fatto del male, e dai due uomini di culto, indifferenti. Si troverà qualcuno che avrà la forza, la generosità, il tempo per avvicinarsi?
Qualcuno arriva: è uno sconosciuto samaritano, cioè uno straniero. Dallo straniero odiato non ci si può aspettare normalmente che odio. Se gli altri due, appartenenti allo stato religioso, non si sono scomposti, tanto più potremmo pensare che costui di certo non si fermerà. In effetti risulta quanto mai forte e radicato l’odio reciproco tra giudei e samaritani.
Gesù prende come esempio un nemico per suscitare nei giudei che lo ascoltavano il senso vero e pieno dell’amore, come un invito a ritrovarne la misura giusta e imprevedibile. Se avesse segnalato un sant’uomo, avrebbero potuto obiettare che la capacità di amare è caratteristica esclusiva di chi è perfetto, ma avendo scelto un nemico dichiarato provoca realmente una revisione di vita, non solo per coloro a cui era diretta la parabola, ma per gli uditori di tutti i tempi.
Questo uomo, un samaritano e un avversario, assurge a vero protagonista; nella sua figura la parabola tocca vertici veramente alti. In lui, nella sua persona, nel suo modo di comportarsi, nei suoi sentimenti, si svela man mano una grandezza d’animo insospettata, una sensibilità incomparabile, una generosità senza limiti. A lungo Gesù lo descrive, lo osserva, si ferma dettagliatamente su di lui, delineandone un quadro suggestivo e fascinoso. Mentre sugli altri due offre appena un cenno, per indicare che se ne sono andati via, non solo allontanandosi dal malcapitato, ma anche dalla considerazione dell’ascoltatore. Si sono dileguati come nel vuoto. Di essi non resta nulla, se non l’amarezza della loro rigidità interiore. Del samaritano invece Gesù vuole mettere in rilievo l’intima movenza del cuore, la prestazione incondizionata, l’amorevole cura.
Egli “era in viaggio”, certamente non per una gita di piacere o per turismo, ma per affari. La sua patria si trova a nord e perciò attraversare un territorio straniero per lui è più pericoloso rispetto agli altri due. Avrebbe potuto reagire con maggior indifferenza, riconoscendo che non spettava a lui affrontare situazioni di una persona estranea e nemica, fuori com’era dal suo paese e dagli usi a lui familiari. Come gli altri due, passa accanto allo sventurato e lo vede. Nel suo caso però il testo sacro aggiunge: “Ne sente compassione”, cioè ha viscere di misericordia. È un modo di dire per indicare la parte interiore della donna, le viscere materne, che si muovono, si lasciano impressionare, si inteneriscono. Da lì, dalla commozione intima, ha origine ogni azione. L’atto caritatevole nasce dal di dentro.
Luca aveva accennato alla compassione di Gesù per la vedova di Nain, poi descriverà la compassione del padre verso il figlio prodigo che ritorna. La compassione sta all’inizio ed è sorgente e spinta dei gesti di amore. Il samaritano ha occhi aperti e cuore pronto ad aiutare. Di fatto interviene. Subito si accosta, cioè si fa ancor più vicino, guarda, tocca. È l’atteggiamento contrario a quello degli altri due, che si sono distaccati, passando dall’altra parte.
Egli nota anzitutto le ferite e vi pone un rimedio istantaneo con i mezzi a sua disposizione, una specie di pronto soccorso improvvisato: tampona le piaghe asciugandone il sangue, vi versa olio e vino, il primo come sedativo, il secondo come disinfettante, poi le fascia. Si tratta di una protezione immediata, ma sufficiente per non far peggiorare la situazione. Pur essendo in viaggio e dovendosi sbrigare, non si preoccupa di perdere tempo. Non fa calcoli su come riuscire a cavarsela nel modo più rapido, comodo, indisturbato e innocuo possibile. L’intervento per prestare aiuto richiede noie e pesi; la benevolenza concreta costa sacrificio e impegno, esige superamento delle difficoltà.
Appena fasciato, lo carica sul giumento, l’animale di sua proprietà, su cui era salito e vi sedeva. Offre il suo posto all’altro, come fosse se stesso, mentre lui ora percorre la strada a piedi per condurlo alla locanda più vicina. Cerca per costui un luogo di accoglienza e di protezione; non lo lascia sulla strada, ma lo porta con sé.
Sono gesti di grande disponibilità e bontà. Probabilmente molte persone fino a questo punto si sarebbero comportate allo stesso modo. Ma l’amore arriva a un livello più alto, come fa notare Gesù.
Il samaritano si prende cura del povero infermo, dopo che lo ha scortato fino all’albergo. Poteva lasciarlo lì e lui andarsene via, avendo fatto fin troppo per quello che era in suo potere. Invece alla locanda lo assiste ancora con maggior premura, gli sta accanto, vegliando per tutta la notte, pronto a dargli aiuto qualora avesse avuto bisogno di qualcosa.
Il mattino seguente, non potendo fermarsi più a lungo, ma dovendo proseguire il suo viaggio d’affari, estrae due denari per pagare all’albergatore. Dona qualcosa di suo, in corrispondenza al salario di due giornate. Sapendo che il pover’uomo non ha denari perché derubato dai briganti, supplisce con i suoi soldi. Non solo, ma sollecita il locandiere ad avere cura di lui. Con questo coinvolge un’altra persona nella complessa operazione della carità. Nello stesso tempo gli dice: “Ciò che spenderai in più, io, quando ritornerò, te lo renderò”. In tal modo mostra di avere un amore altamente disinteressato, anzi vi rimette il denaro di persona.
Da questi dati si vede bene come la persona del prossimo prenda il primo posto nel cuore del samaritano: gli altri interessi e faccende non hanno più valore primario. Tutto in qualche modo resta subordinato alla premura e alle cure verso colui che ha bisogno e che diventa l’attrazione principale. I sentimenti, le attenzioni, i gesti sono orientati a soccorrere l’indigente che ha incontrato sulla strada e a cui si è avvicinato, a coglierne le esigenze, a considerarne le emergenze e le possibili soluzioni. Ciò che conta è che l’altro viva e stia bene. Perché questo accada, occorre l’amore, perché solo l’amore fa vivere. Tutto ha origine da quei tre verbi con i quali è presentato, fin dall’inizio, l’uomo samaritano: passò accanto, lo vide, ne ebbe compassione.
Gesù presenta un amore talmente elevato, che normalmente non si riscontra nella concretezza della vita. Secondo anche il commento degli antichi padri della Chiesa, nelle linee che dipingono la figura del samaritano non è errato riconoscere la persona stessa di Cristo, nel suo amore compassionevole verso tutti i sofferenti, che lo ha spinto a condividere la loro medesima esistenza per confortarli e guarirli. Però egli non vuole mettersi in mostra presentandosi come modello da imitare; trasfonde il suo grande amore in questo samaritano, davanti al quale i suoi seguaci devono confrontarsi ed essere stimolati a vivere con il medesimo amore. Il contesto del brano è incentrato propriamente sul discepolato. A ogni suo seguace Gesù rivolge quelle parole conclusive e impegnative: “Va’ e anche tu fa’ lo stesso”.


 

 

 

 

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