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APPROFONDIMENTI

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SETTE PAROLE DI GESU' IN CROCE


1. Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno


Il significato della morte di Gesù appare a diversi livelli, di cui il più facilmente percepibile è quello del profeta che muore come testimone, e il più profondo è quello del Figlio che perdona. La sua morte è una realtà profondamente umana nel senso pieno del termine e non semplicemente destino biologico, poiché è la conseguenza della scelta di mettere la testimonianza della verità al di sopra della propria vita. Gesù è l’uomo giusto e il profeta, che preferisce la giustizia divina alla rinuncia della morte; è il Messia che ricusa la potenza e sceglie la povertà; paga con la propria vita la proclamazione della verità che si oppone ad ogni falsa speranza messianica. In questo modo rivela il male che degrada il mondo: la menzogna e l’odio, di cui la sua morte è conseguenza.
Un significato ulteriore appare dall’atteggiamento che Gesù assume di fronte ai suoi carnefici e dall’interpretazione che in questo modo dà alla sua morte: nella consapevolezza del Figlio che ha disposto della propria vita in obbedienza al Padre, egli dispone ugualmente del proprio perdono come del perdono stesso di Dio. Perdonando nell’atto della morte che gli viene inflitta, Gesù comunica definitivamente la misericordia di Dio a coloro che lo uccidono e, in essi, a tutta l’umanità che ne condivide l’atteggiamento.
In questo senso la morte di Cristo costituisce la più alta rivelazione della sua persona e, mediante questa, di Dio. Dio vi si rivela come colui che, assumendo la condizione dell’uomo fino alle estreme conseguenze, la muta dal di dentro, ne capovolge i valori, divenendo mediante l’amore, di cui il perdono è la suprema espressione, fonte e principio di vita. Dio è l’amore stesso che, subendo personalmente l’urto dell’odio, che gli procura la morte, offre all’uomo la possibilità, di cui l’uomo non dispone, di spezzare questo circuito di morte e di ristabilire la comunione.

2. In verità ti dico: oggi sarai con me nel paradiso
Al malfattore che con fede ha aderito a lui, Gesù asserisce con autorità regale: “In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso”. Uno assieme all’altro per sempre.
Gesù e il ladrone non solo entrano insieme nell’oscurità della morte, ma insieme sono diretti verso la vita; lui il re e il sovrano, l’altro il peccatore e reo, ambedue congiunti nella medesima comunione vitale. Il salvatore pertanto entra in paradiso in compagnia di un malvivente, che sulla croce è giunto alla fede. Strana congiunzione di opposti, ma l’annuncio evangelico, che Luca fa risuonare, sta precisamente nella straordinaria novità portata da Cristo: il suo amore va in cerca del peccatore, si dona a lui fino a morire con lui, per vincere con l’amore il peccato che della morte è il dominatore. In questo modo rende l’uomo partecipe della comunione eterna con sé.
Veramente non è possibile constatare un abisso più profondo di amore e una sua altrettanto sorprendente esaltazione. L’abisso sta dalla parte di Colui che, pur possedendo la potenza regale nelle altezze eterne, si è chinato e abbassato non solo a condividere l’umana e debole esistenza, ma fin’anche a confondersi tra i malfattori e associarsi ad essi nella morte infame della crocifissione. L’esaltazione è per il povero delinquente che, abbruttito dal peccato e affisso al legno del supplizio, ha creduto e si è affidato al re immolato con lui sulla croce, condividendone prima la terribile pena e poi l’ingresso nel regno.
Come si può delucidare un così paradossale incrocio di linee contrarie, le quali, anziché respingersi e allontanarsi, si attraggono e si congiungono in uno stupefacente abbraccio? Chi può compiere una meraviglia del genere?
Si resta interdetti e attoniti. Ma una ragione ci deve essere; anzi, più che di ragione, si può parlare di grazia sovrumana, di amore infinito e inaudito, vale a dire della compassionevole potenza e carità divina. Solo lui, quell’amore non terreno, perché vivente nel cielo, ma generosamente umiliatosi per essere incarnato e offerto, solo lui ha potuto attuare un simile straordinario congiungimento. Non resta che accoglierlo, lasciandosi esplodere nello stupore e nel ringraziamento, per esserne totalmente avvolti e trasformati.

3. Donna, ecco tuo figlio; figlio ecco tua madre
È come il suo testamento. Gesù alla fine dona all’umanità la cosa che aveva più cara: sua madre. E tale dono viene suggellato dal sacrificio della croce.
Egli vede la madre. Non è uno sguardo distratto e generico: coglie l’interiorità di questa donna ed esprime a lei tutto il suo amore e il suo dolore. È lui che la vede, ma anche lei lo guarda e accoglie la profondità dello sguardo del figlio. Nell’incontro di sguardi, i due cuori si intendono perfettamente.
Accanto alla madre Gesù vede anche il discepolo che egli amava e nel discepolo vede gli altri discepoli che lo hanno abbandonato, ma dietro di loro vede tutte le creature che poi lo seguiranno, che lo tradiranno, vede tutta l’umanità che ha bisogno di lui.
Il Crocifisso dichiara: “Ecco il tuo figlio”. Egli presenta alla madre il discepolo lì presente, come fosse suo figlio, in sostituzione del figlio proprio che sta morendo sulla croce. Il significato è molto profondo. Gesù esige dalla madre un rapporto con Giovanni che non è semplicemente a livello di affetto amichevole, ma che deve raggiungere la medesima intensità del rapporto che la univa a lui figlio.
Per Maria non è cosa da poco. Sostituire il figlio, per una madre, è un atto eroico: altro è Gesù, altro è Giovanni. Gesù è il frutto del suo seno, carne della sua carne, il Figlio che ella ha amato ad di sopra di tutti. Giovanni era sì un amico, un seguace del Cristo, ma un estraneo, non aveva certo la dolcezza, la profondità e la bellezza del Figlio.
Nonostante ciò, Maria si rende disponibile ad accogliere Giovanni con lo stesso amore, con la stessa disponibilità con cui ha accolto il Verbo di Dio nel suo seno.
Poi Gesù indica al discepolo: “Ecco la tua madre”. Non la designa più donna, la nomina madre. In questo modo fa capire al discepolo che c’è una madre che lo ama, lo accoglie e lo guida; non è solo.
Lo stesso rapporto di comunione, d’amore, di fede, che ha legato Maria a Cristo, ora unisce Maria ai Giovanni e questi a Maria. Infatti il discepolo fa un gesto stupendo, che racchiude tutta la devozione mariana: “La prese nella sua casa”.

4. Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
È il grido straziante del Crocifisso. Esprime, prima della morte, l’intenso legame che lo unisce al Padre, invocandolo “suo” Dio.
Quelle parole, a livello letterale, riprendono il salmo messianico, in cui si preannuncia l’annientamento del Messia fino alla sua totale distruzione, ma insieme si intravede la sua vittoria trionfale. Gesù sta vivendo in pienezza quanto gli antichi profeti avevano previsto, in corrispondenza al divino progetto.
Quelle stesse parole rivelano l’estrema angoscia dell’animo, quando esso sperimenta le tenebre e la solitudine di sentirsi privato di ogni aiuto e sostegno umano, per essere lasciato in balia delle forze malvagie che gli si accaniscono contro. Tuttavia, se si guada a fondo, si scorge l’altezza spirituale di Colui che, pur subendo l’affronto della crocifissione maledetta, non ne resta vittima disperata, ma si appoggia fortemente al suo Dio, sapendo, e per questo gridando, che tutto corrisponde alla sua paterna volontà.
Il Figlio morente si chiede il “perché” di tanto strazio, non nel senso di affermare realmente l’abbandono di Dio, ma più significativamente nell’intima ricerca di riconoscere e accettare l’ardua pretesa divina di riversare l’amore redentore sugli uomini, da cui egli sente gravare su di sé l’enorme peso della loro cattiveria e dei loro misfatti.
Rivolgendosi filialmente al Padre, Gesù si rimette al suo disegno salvifico, che gli richiede il dono pieno di sé sulla croce. Egli si sprofonda in tale abisso d’insondabile e sovrumana grandezza, impastata di dolore e di amore. Là trova il vero significato della sua oblazione sacrificale.

5. Ho sete
Strano paradosso. Sulla croce Gesù dice di aver sete, mentre aveva promesso di effondere sui discepoli acqua viva e zampillante: “Nell’ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù levatosi in piedi esclamò ad alta voce: Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me” (Gv 7,37). Di quale sete si tratta? Di quale acqua si parla?
Il medesimo paradosso era già stato rivelato al pozzo di Sicar, davanti alla samaritana, quando Gesù chiede da bere alla donna e insieme promette a lei acqua viva: “Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è Colui che ti dice: Dammi da bere!, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva” (Gv 4,10). Precisa poi Gesù che l’acqua che egli dona disseta in modo totale l’arsura umana, anzi diventa nell’uomo sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna.
Il paradosso sta precisamente nel diverso livello in cui si pone Gesù rispetto alla creatura umana. Questa si limita all’orizzonte fisico, pensando all’acqua che soddisfa le esigenze corporee, mentre il Cristo si pone nella sfera profonda del cuore, dove risiede il desiderio vitale dell’amore, l’anelito a colmare i vuoti interiori, a superare le conflittualità dell’anima, a liberarsi dalle strettoie della solitudine e dell’angoscia. Chi può appagare quella sete così forte e insaziabile?
Da qui si capisce il senso della sete del Crocifisso, il quale sa di donare acqua per dissetare l’umanità. La sua sete indica lo zelo redentore, che brama accogliere e abbracciare ogni essere umano, estremamente bisognoso dell’acqua viva dell’amore, per risanare le piaghe dolorose e drammatiche del rifiuto e della carenza dell’amore. Mentre sperimenta l’arsura e l’amarezza della morte, Gesù si piega amorosamente per sollevare e alleviare le ferite che sanguinano e alzano il grido dagli uomini desolati.
Egli vuole guarire e dissetare ciascuno di noi, per questo soffre la sete e l’ansia di raggiungere ogni individuo, per comunicargli il suo amore sconfinato, che solo soddisfa l’arsura del cuore umano.

6. Tutto è compiuto
Con il dono della propria vita, Gesù porta a compimento la sua opera, raggiunge la pienezza dei suoi intenti. Lo aveva preannunciato l’evangelista Giovanni: “Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1). Là, sulla croce, si rivela l’attuazione totale dell’amore. Di fatto non esiste un amore più grande di colui che dona la sua vita per la persona amata, come Gesù stesso aveva dichiarato ed ora realizza definitivamente e totalmente.
Mistero insondabile e mirabile connubio di amore e di sacrificio! Il compimento dell’amore consiste precisamente nel dono di sé fino alla morte, mentre la morte, sofferta per amore, manifesta la totalità della donazione. L’una e l’altro, morte e amore, si abbracciano per completare l’azione redentrice di Cristo e mostrare che più in là non si può andare. Segnano gli estremi confini, in cui mirabilmente l’amore, portato fino alla morte, diventa più forte della morte e si pone vera sorgente di vita, trasformando le tenebre in luce, la sconfitta in vittoria, la cattiveria in suprema benevolenza.
In effetti l’amore pieno e gratuito nobilita e consuma il sacrificio di sé in evento di redenzione e di salvezza, di liberazione e di rinnovamento. D’altra parte il sacrificio completo di sé esprime e realizza l’amore in modo incontrovertibile e radicale. Ambedue si compiono, si aggrappano reciprocamente, per poi superarsi e sfociare nel predominio dell’amore sulla morte.
L’ineffabile resta ancora da scoprire, nel senso che la persona verso cui si dirige questa pienezza di amore e di donazione è propriamente la creatura umana. Questa, attraverso l’esperienza del dolore fino all’estremo dono di sé, scopre la pienezza dell’amore e ne è coinvolta in modo così totale, che anche per lui, come per Cristo, il morire per amore diventa un vivere per sempre nell’amore. Questa meravigliosa trasformazione non è stata inventata dall’uomo, ma l’ha rivelata e comunicata soltanto il Cristo crocifisso, che ci ha amati fino alla fine, quando tutto è stato compiuto.

7. Padre! Nelle tue mani consegno il mio spirito
Rimettendo se stesso nelle mani del Padre, che riconosce il principio unico della sua esistenza, Gesù attua e rivela fino all’ultimo respiro d’essere il Figlio fiducioso unicamente del Padre. Nell’impotenza della morte, vissuta nell’abbandono filiale, egli trova la sorgente della vita vera, il Padre, a cui finalmente si unisce senza ostacoli o limitazioni terrene.
Gesù muore per amore, non solo verso gli uomini, ma innanzitutto verso il Padre: “Bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato” (Gv 14,31). L’obbedienza filiale non è altro che la pienezza d’amore con cui il Figlio ama il Padre e si sente amato dal Padre, un amore in forza del quale Gesù s’abbandona nelle braccia della croce come fossero le braccia del Padre.
Sulla croce il Figlio s’eleva fino al Padre e il Padre si china su di lui per avvolgerlo del suo amore. In quel momento si attua la massima unione tra Gesù e il Padre, quando l’angoscia e la solitudine della morte, provocata dalla negazione dell’amore, vorrebbero allontanare l’uno dall’altro.
In quell’ora di suprema donazione di sé, Gesù estende la sua figliolanza a tutti gli uomini, associandoli alla sua medesima situazione filiale. Offrendo se stesso come Figlio incarnato fino all’annientamento della morte, egli fa dono totale della dimensione profonda del suo essere, cioè fa dono del suo spirito filiale: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). Quando Gesù affida il suo spirito al Padre, questo spirito non è più soltanto suo, ma è posto a disposizione del Padre, affinché sia effuso sull’umanità e possa essere accolto da coloro che si aprono ad esso.
 


Renzo Lavatori
Docente di teologica dogmatica a Roma



 

 

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